Roma, 3 dicembre 2024 – Oggi è – più che mai – il giorno del giudizio. Non solo per Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, l’11 novembre 2023, con modalità strazianti e dinamica fuori dai margini persino nella casistica sanguinaria dei femminicidi. Oggi è il giorno del giudizio – simbolicamente inteso – anche per l’Italia intera che guarda alla Corte di assise di Venezia come al luogo della giustizia. Una giustizia rapida (meno di 13 mesi), tangibile (perché la condanna è sicura) e proporzionata: ergastolo (come nella fresca sentenza a carico di Alessandro Impagnatiello per il non meno efferato omicidio di Giulia Tramontano) o, in alternativa, 30 anni di reclusione (ipotesi residuale). Pesano le 75 coltellate inflitte alla vittima tra Vigonovo e Fossò (i primi fendenti a 150 metri da casa), il corpo abbandonato in Friuli al lago di Barcis dopo un vano tentativo di suicidio, la fuga in Germania fino a restare senza benzina, l’arresto e il rimpatrio con volo militare.
“Ergastolo”, chiede la procura con motivazioni tecnicamente accurate. “Ergastolo”, auspica il Paese reale in trepida attesa, al quale l’irrogazione della massima pena appare l’unica modalità per chiudere il cerchio. Come se l’Italia non fosse e non restasse il Paese dei circa cento femminicidi all’anno: una mostruosità che taglia ogni ceto sociale e sparge angoscia ogni tre giorni. Ma oggi, al cospetto di Giulia e Filippo, ogni altra storia mediatica sembra meno rappresentativa. Le ragioni sono tante: l’assoluta normalità dei protagonisti e la loro impreparazione sentimentale; la trasparenza della crisi raccontata da messaggi e chat; l’evidente e sottostimata tossicità del rapporto; l’irresistibile caduta verso i rispettivi precipizi; l’infelice scoperta che la rottura della relazione tra due quasi laureati del ricco Nordest può chiudersi con modalità più feroci che in ambienti degradati; la totale nitidezza dei fatti.
In aula l’occhio delle telecamere si concentrerà sullo sguardo di Turetta e sul volto di Gino Cecchettin, padre di Giulia. Due facce due vite due storie dello stesso Veneto operoso e benestante. Contesti familiari fatalmente separati da questa centrifuga di orrore e dolore. Cecchettin non chiede vendetta: la Fondazione intitolata alla figlia lo proietta già tra i protagonisti della società italiana, quella che vuole davvero combattere la piaga dei femminicidi e farne un tema di progresso reale.
Salvo sorprese, Turetta sarà in aula anche in questa quinta e ultima udienza. Seduto tra i difensori Giovanni Caruso e Monica Cornaviera, avrà facoltà di fare dichiarazioni spontanee prima che i giudici si ritirino in camera di consiglio, ma probabilmente rinuncerà. Per il pm Andrea Petroni le aggravanti che giustificano la richiesta di ergastolo sono “premeditazione, stalking e crudeltà”. Un assassinio “premeditato” – non solo preordinato. Vedi la lista stilata dall’assassino prima dell’ultimo incontro con Giulia: coltelli, scotch, badile, sacchi neri dell’immondizia, corda per legare caviglie, sotto e sopra ginocchia, calzino umido in bocca “per non farla urlare”. Un progetto di morte dal quale, secondo la pubblica accusa, Turetta non recede pur avendo “tutte le possibilità e gli strumenti culturali”. Anzi, le “25 ferite da difesa”, per la maggior parte su testa, collo e braccia della vittima, illustrano tutta la crudeltà dell’omicida. Al contrario, secondo i legali di Turetta, proprio la lista ritrovata svela tutta l’“indecisione” dell’allora 21enne. E le 75 coltellate? “Non un killer professionista” ma un ragazzo che “colpisce alla cieca”. Sempre secondo la difesa, anche l’accusa di stalking merita una riflessione profonda perché, nei mesi di crisi, Giulia è sì “continuamente controllata”, ma non cambia mai “abitudini”, altrimenti non accetterebbe “di uscire” la sera in cui muore.
Chat e messaggi letti in aula dal pm sicuramente raccontano un rapporto malato. “Maledetta che sei, mi fai pena, sei ridicola. Mi devi tenere traccia della tua giornata, sei una stronza”, scrive Filippo a febbraio 2023, dopo aver chiesto a Giulia di ritardare il percorso di laurea, più veloce del suo, per finire insieme, ricevendo un secco rifiuto. In seguito, Turetta comunica a Giulia di volersi suicidare “per farla sentire in colpa”. Due giorni prima dell’omicidio, Filippo preme su Giulia per la riattivazione degli ultimi accessi su Whatsapp. Lei gli risponde: “Va bene, ma dopo la laurea faccio quello che voglio e non rompi più il cazzo”. Non ha il minimo sospetto. Oggi il suo nome guida la lotta contro i femminicidi, mentre Turetta – in sezione protetta – suona nella band del carcere di Verona, fa palestra e perfeziona l’inglese. Per completare la laurea in ingegneria biomedica non gli mancherà certo il tempo.