STEFANO MARCHETTI
Cosa Fare

Dal Nord il canto del silenzio di Hammershøi

A Palazzo Roverella di Rovigo la prima retrospettiva italiana sul pittore danese. Dimenticato, oggi le sue quotazioni sono alle stelle

'Doppio ritratto dell’artista e della moglie visti attraverso uno specchio': una delle opere di Hammershøi esposte a palazzo Roverella di Rovigo

'Doppio ritratto dell’artista e della moglie visti attraverso uno specchio': una delle opere di Hammershøi esposte a palazzo Roverella di Rovigo

Rovigo, 21 febbraio 2025 – Ci sono cose in un silenzio che non m’aspettavo mai. Già, chissà cosa c’è nel silenzio, quali parole non dette, quali speranze, quali disillusioni. Chissà quale segreto o quale felicità nuova poteva esserci nella penombra della stanza grigia di Strandgade 30 a Copenaghen, dove il pittore Vilhelm Hammershøi visse a lungo con la moglie Ida. Uno scaffale, un armadio, una sedia appoggiata alla parete, il busto di un bambino su un’alzatina, luce rarefatta, colori tenui, grigi, un verde appena sfumato. Sottilmente angoscioso.

"Il silenzio, la solitudine, l’attesa sono il contenuto dell’ascetica produzione di Hammershøi, la quintessenza di un preciso modo d’intendere l’arte, la vita, con spirito prettamente nordico", sottolinea Paolo Bolpagni che cura la grande mostra promossa dalla Fondazione Cariparo a Palazzo Roverella di Rovigo.

Aperta fino al 29 giugno, è la prima retrospettiva in Italia dedicata all’autore danese vissuto fra il 1864 e il 1916 e ai pittori del silenzio: famoso all’epoca, poi quasi dimenticato dopo la sua morte ("forse perché non era incasellabile in alcun movimento, nel simbolismo o nelle avanguardie", osserva Bolpagni), Hammershøi è stato riscoperto a partire dagli Anni ‘80 del secolo scorso e soprattutto da quando il Musée d’Orsay a Parigi ha acquistato una sua celebre tela, ‘Riposo’ (ora esposta a Rovigo), organizzando una mostra. Ora le quotazioni dell’artista sono volate alle stelle: due anni fa una sua tela è stata battuta all’asta a New York per più di 9 milioni di dollari.

Hammershøi nacque a Copenaghen da una famiglia benestante: la madre Frederikke intuì il suo talento, a 13 anni lo fece iscrivere all’Accademia e rimase sempre la sua prima fan. Fin da subito il giovane Wilhelm mostrò la sua predilezione per un intimismo minimalista degli interni domestici, per le vedute urbane deserte, per i paesaggi essenziali e per le stanze animate da presenze femminili silenziose, quasi sfuggenti.

Quelle donne (quasi sempre persone di famiglia, la moglie, la madre, la sorella) che ha dipinto anche di profilo, inventando perfino il ‘ritratto di spalle’, quasi ad accentuarne l’enigmatico mistero, l’incomunicabilità. Nelle sue tele i colori non esplodono mai: "Sono assolutamente convinto che un dipinto ha il miglior risultato se ci sono meno colori", diceva.

Tutto è ritirato, racchiuso, silente come la vita stessa dell’artista che rifiutò perfino l’invito di Rilke che voleva dedicargli un saggio. Hammershøi parlò poco, viaggiò molto e fu diverse volte anche in Italia, non amava gli artisti del Rinascimento ma prediligeva i ‘primitivi’: Giotto, Beato Angelico, Masolino, Masaccio. Partecipò anche alla Quadriennale di Roma del 1911. Ma l’unico dipinto che dedicò al nostro Paese è l’interno della chiesa di Santo Stefano Rotondo a Roma. Ovviamente deserto, quasi surreale.

In Hammershøi si ‘vede’ l’eredità di Vermeer e di certo si coglie la discendenza dalla Scuola dell’Aja. Qualcuno lo ritiene perfino un antesignano degli sguardi di Edward Hopper e delle sue stanze trafitte da un raggio di sole. Di certo ad Hammershøi si riferirono diversi artisti della sua epoca che la mostra rodigina mette in dialogo con le sue opere: i danesi Ilsted e Holsøe, i francesi Ménard, Dulac, Osbert, e anche tanti italiani, Umberto Prencipe, Oscar Ghiglia, Giulio Aristide Sartorio, Umberto Maggioli, Mario Reviglione.

"Tutti loro, pur con sfumature diverse, praticarono una poetica basata sui temi della solitudine, delle ‘città morte’ e dei paesaggi dell’anima", aggiunge Bolpagni. E se il mondo poi relegò Hammershøi nell’oblio, non altrettanto fece il cinema: "In film di Ingmar Bergman, ma soprattutto del regista danese Carl Theodor Dreyer, si riconoscono precisi riferimenti alla sua opera", fa notare il curatore. Con quella voce del silenzio che continua a interrogarci. E a parlarci.