Le braccia aperte, come Cristo in croce. Il volto trasfigurato dalla fatica e dalla gioia. In quell’immagine sul traguardo di Montecampione, nella tappa che si rivelò decisiva per il trionfo al Giro d’Italia del 1998, c’è tutto Marco Pantani. La felicità e il dolore insieme. Le continue salite e discese sulle montagne della vita. Una vita troppo breve. E che ha consegnato il campionissimo di Cesenatico alla leggenda.
La Graziella mi basta
Tifosissimo del Cesena e del Milan, il primo amore di Pantani è stato il calcio. "Giocava ala destra. Si arrabbiava molto quando lo mettevano in panchina", ricorda il papà Paolo. Uno dei vicini di casa, Roberto Amaducci, allenava nel settore giovanile della ’Fausto Coppi’, società ciclistica di Cesenatico. E Marco iniziò a correre con gli altri ragazzini. "Prendeva la mia bici, una Graziella da donna – racconta mamma Tonina – mentre gli altri avevano quella da corsa. Tornava a casa e mi diceva: mamma, non mi hanno staccato".
Poi arrivò la prima bici da corsa, regalatagli dal nonno. Con Marco alla ’Fausto Coppi’ correva Andrea Agostini, l’amico di sempre e poi diventato il suo addetto stampa, da anni dirigenre della Uae di Pogacar. "Quante avventure in bici con Marco. E quante cadute. Una volta, avevamo 15 anni, tornavamo a Cesenatico da un allenamento: Marco si distrasse e si stampò contro un furgone parcheggiato in strada. Il suo volto era una maschera di sangue...". Fu il primo, grave incidente in bici di tanti. "Ma Marco si è sempre rialzato dopo ogni caduta".
Le salite di Marco
Pantani passò ai professionisti nel 1992, a 22 anni. Continuò a prepararsi alle grandi corse sulle amate strade della Romagna. "Il Carpegna mi basta", ripeteva sempre. Lì, su quei 6 chilometri di pura fatica, dove ogni tornante ricorda oggi le imprese del Pirata e di altri campioni. Così come le salite di Montevecchio, di San Leo, alle Balze, dove il Pirata si allenava spesso. Marco aveva con la sua terra un fortissimo legame. Era facile incontrarlo al chiosco di piadine a Cesenatico dei suoi genitori o (quando era in vacanza) nei locali della Riviera. Proprio in una discoteca conobbe Christina Jonsson, diventata poi la sua fidanzata.
Dalle cadute ai trionfi
Che fosse speciale, Marco lo dimostrò dagli esordi. Nel 1994 la prima tappa vinta al Giro. Ma la sfortuna iniziò a perseguitarlo. Nel 1995 fu investito da un’auto durante la Milano-Torino: stagione finita e carriera a rischio. Ma lui si rialzò. Dopo quell’incidente, dopo tanti altri. E nel 1998 firmò l’impresa mai più riuscita da allora a nessun altro: vincere nello stesso anno il Giro d’Italia e il Tour de France.
Madonna di Campiglio e la discesa all’inferno
L’anno dopo, era il 1999, Pantani sembrava già destinato a fare il bis al Giro quando il 5 giugno, a Madonna di Campiglio, venne sospeso dopo il test antidoping: il suo valore di ematocrito risultò più alto del consentito. Prima e dopo l’esame, i valori di Pantani erano normali. "Mi hanno fregato. Questa volta non mi rialzo più", disse il campione di Cesenatico, costretto a lasciare il Giro. Un giallo, quello di Madonna di Campiglio, su cui ancora oggi indagano le Procure. Per il Pirata iniziò un incubo dal quale, di fatto, non si sveglio più. Il resto è storia. Il difficile ritorno alle corse. La depressione. La cocaina. Il Pirata fu trovato senza vita in una stanza dell’hotel Le Rose a Rimini il 14 febbraio del 2004. Le tre indagini della Procura di Rimini sulla tragedia (inclusa l’ultima) sono arrivate tutte alla stessa conclusione: nessuno ha ucciso Pantani, che è morto per un mix di cocaina e di farmaci antidepressivi. Ma "Marco – dice spesso Tonina – in realtà cominciò a morire quel giorno a Madonna di Campiglio...".