di Matteo Naccari
L’analisi dello stato dell’economia emiliano-romagnola, e anche di questa provincia, deve partire da un esempio. I francesi, in provincia di Bologna, hanno fatto ancora shopping portandosi a casa un’altra eccellenza italiana. Scriviamo ’ancora’ per il semplice motivo che in regione hanno sempre trovato terreno fertile, dato che l’ex Parmalat è appunto ora di proprietà della Lactalisi, multinazionale dell’agroalimentare.
Torniamo a Bologna. Il passaggio di mano della piccola ma particolare Viro, gioiellino nel settore dei lucchetti, venduta dalla famiglia Innocenti a un’altra multinazionale francese, la Sfpi, impone diverse riflessioni sul sistema economico italiano e di questo territorio. Certo, l’operazione permetterà alla Viro di crescere dagli attuali 16 milioni di euro di fatturato, di allargarsi ulteriormente all’estero e di contare su nuovi investimenti
con ricadute senza dubbio positive sull’occupazione. Buone notizie, ma la prima domanda è: perché non comprano mai gli italiani? O meglio, perché non sono loro a investire dove sono nati e creciuti?
In Emilia-Romagna ormai le grandi operazioni sono ad opera di aziende con radici straniere oppure di italiane che sono di proprietà straniere da tanto tempo. Guardando sempre a questi ultimi giorni, ad esempio, si nota come i numeri straordinari di Lamborghini e Ducati abbiano una trazione tedesca, così come i super investimenti di Philip Morris, sempre a Bologna, non sono certo pensati in Italia; ancora, gli yacht Ferretti – radici a Forlì – che puntano diversi milioni di euro sulla cantieristica a Ravenna hanno un cuore cinese (che li ha rilanciati dopo anni di preoccupazioni), mentre gli informatici della Ntt che assumono centinaia di addetti sempre sotto le Due Torri sono giapponesi.
E gli italiani? Non pervenuti. Questa terra è piena di idee e di talenti, i marchi nati e cresciuti qui lo dimostrano, alcuni sono famosi in tutto il mondo, ma forse si è persa una certa spinta imprenditoriale. Purtroppo alla finestra dell’economia non si vede affacciarsi una nuova vera razza di imprenditori. E non per incapacità, ma probabilmente per il cronico male italiano di non lasciare spazio ai giovani.
Ecco, invece, servirebbe un’apertura maggiore ai manager in erba, alle nuove leve che possono portare idee innovative e che soprattutto rischiano – senza avere paure, timori, titubanze – spesso vincendo le loro scommesse.
Una classe imprenditoriale datata, come la nostra, è inevitabilmente portata alla conservazione di quanto costruito senza ulteriori spinte. Riflettiamoci. Per evitare che pian piano nelle nostreaziende si pensi solo in una lingua straniera.