Simona è la terza figlia del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e Dora Fabbo. Giornalista e parlamentare, ha fatto sua la battaglia iniziata dal padre e ne porta avanti la memoria. I suoi ricordi sono la testimonianza di una vita dedicata alla legalità, alla democrazia e all’amore verso la gente. E fiducia verso il prossimo.
Questa è l’edizione numero 33 del master d’Italia dedicato a suo padre: come vive questo memoriale?
E’ un’emozione per me vedere che a distanza di anni il ricordo di mio padre venga portato avanti, in luoghi e situazioni diverse come per esempio questo memoriale. E’ un piacere che sia dedicato a papà perché parliamo di uno sport nobile e bello. E fa doppiamente piacere perché anche Emanuela Setti Carraro, sua moglie, faceva ippoterapia con i bambini quando era crocerossina. Con il cavallo c’era un legame a doppio filo, quindi: la cavalleria in sé e come modo di essere, e come strumento di crescita".
Un evento legato poi a un territorio che avete vissuto.
"L’Emilia ha fatto parte della nostra storia, ha un valore affettivo particolare. I nonni venivano da Parma e Piacenza. Mio padre metteva sempre in risalto il carattere dell’emiliano, che gli piaceva tanto: la gioia di vivere che per lui lo contraddistingueva e il suo modo di essere diretto ma allo stesso bendisposto con gli altri".
Si parla di memoria, non si può non pensare alla sua trasmissione alle nuove generazioni. Come vede la comunicazione con i giovani di oggi e quali messaggi sono da portare avanti?
"Gli stessi di allora, che hanno diretto la vita di mio padre e la nostra: amore per la legalità, per le persone e per lo Stato. Mi piace ricordare che mio padre è stato il primo uomo delle istituzioni a entrare nelle scuole, e dalle scuole è stato ricambiato. Quando ricoprì la carica di prefetto a Palermo era visto dalle istituzioni come una figura difficile o ostile, che andava a compromettere e combattere uno ‘’stato delle cose’’ preesistente. Furono i ragazzi di una scuola superiore i primi ad accoglierlo attraverso una lettera aperta di benvenuto. E lui lì andò a trovare. Immaginiamoci lo scompiglio per il preside: allora le scuole erano luoghi chiusi, dove si doveva studiare e basta. Negli studenti invece lui vide il futuro".
‘’Il cambiamento deve venire da voi’’ citando un discorso di suo padre. Come cambiava questa dialettica fra genitore e uomo di Stato?
"In nessun modo. I messaggi che portava avanti nelle scuole erano gli stessi che quotidianamente trasmetteva a noi. Nei ragazzi vedeva i suoi migliori alleati e parlava loro direttamente, proprio come un padre. Ci teneva. Raccomandava di fidarsi delle loro capacità e della loro forza. Raccomandava di non cercare scorciatoie nella vita e di ‘’arrampicarsi sui muri con unghie e denti’’. Forte era la raccomandazione a costruirsi il futuro da soli per non essere così ricattabili. Un chiaro invito a essere energici, ma anche onesti e corretti. Quando parlava dei giovani, papà diceva che vedeva i loro occhi ancora puliti, incorrotti e non ancora intorpiditi dalle menzogne. Vedeva in loro l’immagine di una Sicilia che cresceva e aveva del potenziale. Parlava a tutti loro. Poi si rivolgeva ai tossicodipendenti definendoli ‘’i suoi migliori alleati’’ quando in quegli anni erano considerati degli emarginati. Si rivolgeva a loro e alle loro famiglie, e il messaggio era quello di non farsi strumento di ricchezza altrui, sacrificando la loro salute per chi cerca solo del lucro".
Come fu vissuta questa apertura delle scuole e al dialogo fra giovani e istituzioni?
"Fu un successo che da allora va ancora avanti. Oggi siamo abituati alle scuole aperte sul territorio, ma il rompere gli schemi di mio padre, quando gli istituti erano dedicati solo alla didattica, creò uno schema nuovo e oggi, infatti, proprio sui giovani si basa la lotta alla mafia. La comunicazione poi aumentò ancora di più: i gemellaggi con le città del nord emanciparono i ragazzi, li fecero sentire parte di uno Stato e non relegati alle etichette che avevano in quanto siciliani e palermitani. Diventarono i ragazzi che si ribellarono alla Sicilia vecchia e lottarono e lottano per una Sicilia nuova. Una Sicilia nuova, ma che non dimentica e ricorda.
"La memoria è un debito che abbiamo verso chi non c’è più ed è giusto ricordare il suo sacrificio, in vita e avendolo pagato con essa. Noi siamo qui grazie alle persone che hanno sacrificato tutto per la nostra libertà. La libertà economica e intellettuale: come diceva mio padre lottare contro la mafia vuole dire essere liberi di lavorare e vivere, di pensare. Anche quando la mafia non è violenta soffoca l’impresa e le attività, argina l’individualità in favore di uno schema imposto da loro. La memoria serve anche a non ripetere gli errori del passato. I tempi che stiamo vivendo sono ancora segnati da ingiustizie, guerre e violenza: il testimone è quindi passato di mano a noi ma la fiducia non è mai venuta a mancare: il giorno dedicato alle vittime della mafia è il 21 Marzo, quando si ricordano gli oltre mille innocenti caduti per mano del crimine organizzato. Ma è anche il primo giorno di primavera: un giorno di rinascita e di speranza".