Il Generale di Brigata Enrico Scandone è da pochi giorni Comandante della Legione Carabinieri Emilia-Romagna e il Memorial Dalla Chiesa offre l’occasione di un confronto.
Generale, lei ha appena assunto il comando della Legione Emilia Romagna dopo gli anni in cui è stato Comandante Provinciale dei Carabinieri a Napoli: cosa ha portato con sè a Bologna dell’esperienza partenopea?
"Napoli è stata una esperienza che mi ha arricchito: è una città straordinaria, ricca di bellezza e storia, di colore e calore. Allo stesso tempo è una realtà complessa, sfidante, come diceva Pino Daniele città di “mille colori e mille paure”. Ho lavorato con carabinieri straordinari, professionisti il cui impegno quotidiano è continuo sia nelle emergenze del territorio che nei servizi di prevenzione e vicinanza al cittadino. A un mese dal mio insediamento in Emilia Romagna ho avuto modo di apprezzare il modo con cui i carabinieri lavorano con serietà e professionalità, pienamente consapevoli dell’importanza del proprio ruolo. I problemi sono forse diversi ma so che l’impegno e la professionalità sono gli stessi, perché fanno parte del Dna dei militari dell’Arma".
L’Emilia-Romagna, apparentemente, potrebbe sembrare un posto più tranquillo della Campania: eppure le cronache ci dicono che la criminalità organizzata qui ha trovato modo di allungare le mani sul tessuto economico locale e la delinquenza anche minorile è un problema drammatico.
"L’Emilia Romagna, dove il sistema economico è vivace, costituisce una forte attrazione per il riciclaggio dei capitali illeciti. Le indagini condotte negli ultimi anni lo hanno dimostrato e le recenti relazioni della Direzione Investigativa Antimafia confermano il consolidarsi della strategia di infiltrazione nell’economia legale e nei gangli della Pubblica amministrazione da parte delle organizzazioni mafiose. Si registra inoltre la presenza di consorterie criminali anche di origine straniera dedite principalmente al narcotraffico, allo spaccio di sostanze stupefacenti e allo sfruttamento della prostituzione. Allo stesso tempo la violenza minorile nell’area metropolitana e nei grossi centri urbani, quella più evidente agli occhi del cittadino, registra segnali preoccupanti su cui, oltre ad attuare azioni di contrasto e prevenzione, bisogna anche interrogarsi, per intercettare i motivi del disagio e della mancata integrazione quando sono coinvolti minori stranieri. É una sfida che non si affronta da soli: bisogna fare squadra con tutti gli attori istituzionali del territorio, le famiglie, la scuola, le realtà sociali".
Quali strumenti ha a disposizione l’Arma per aiutare la comunità a risolvere questi problemi?
"L’Arma agisce sul piano preventivo e repressivo. La conoscenza del territorio e il legame con le comunità rimangono il presupposto imprescindibile per conseguire ogni obiettivo. In merito alla prevenzione credo molto nell’attività formativa dei giovani con gli incontri nelle scuole accanto a genitori e insegnanti, rientranti nel progetto della “cultura della legalità” avviato da diversi anni dall’Arma. La nostra campagna di prevenzione passa anche attraverso l’opera di sensibilizzazione fatta nei centri di aggregazione, nelle parrocchie, e ovunque rivolta ad adulti ed anziani per non incorrere nelle truffe, altra piaga di estrema attualità. Quest’anno sono stati oltre 1.600 gli incontri che i nostri carabinieri hanno avuto in questa regione in scuole, centri di aggregazione: oltre 96.000 studenti e adulti coinvolti, ora più consapevoli della necessità di una tutela comune della legalità".
Lei è figlio di un ufficiale dei Carabinieri: cosa ricorda di aver pensato nel 1982 dopo la strage di via Carini, e quali memorie si sono sovrapposte a queste immagini dopo aver vissuto Palermo da ufficiale dell’Arma?
"Sono particolarmente legato a Palermo che ho conosciuto ed apprezzato durante i miei periodi di comando: è una città tanto bella quanto affascinante ed impegnativa ma sicuramente fondamentale per la mia crescita professionale ed umana. Ogni volta che entravo in Prefettura era incombente la dimensione del suo impegno e del suo sacrificio. Negli anni ’70 mio padre, anche lui Ufficiale dell’Arma, ha lavorato in Piemonte quando, alla guida del generale dalla Chiesa, i carabinieri erano impegnati a combattere il terrorismo. Conoscevamo la persona, la famiglia, l’impegno ed il rigore morale: nel 1982 avevo solo 13 anni ma il ricordo di quel giorno è nitido nella mia mente, ricordo benissimo dove fossi insieme a mio padre quando ebbe la notizia dell’eccidio. Compresi dai suoi occhi, dalla sua emozione e dal suo dolore la gravità di quello che era successo: un atto così così vile, che ha ferito al cuore l’intera Italia, la famiglia dell’Arma e tutti i servitori dello Stato che avevano condiviso gli stessi ideali e gli stessi valori del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Proprio l’esempio e la quotidianità del lavoro condiviso dimostrati dal Generale avevano forgiato uomini come mio padre, che hanno avuto la fortuna e l’onore di lavorare con lui: questa circostanza, il loro esempio, hanno sicuramente rafforzato la mia motivazione perché mi hanno profondamente segnato e mostrato come percorrere la via del dovere. Dopo pochi anni mi sono arruolato".