Rovigo, 11 febbraio 2015 - “Turbolenze, accumulazioni, crolli, immagini tempestose trascinate con la rapidità del caos che fugge, e quelle ripetizioni frequenti tutte destinate a esprimere tenebre rapinose e l’enigmatica fisionomia del mistero”. Queste parole di Charles Baudelaire potrebbero benissimo essere la giusta premessa alla mostra “Il demone della modernità”, che aprirà i battenti sabato prossimo a Palazzo Roverella invitando per cinque mesi i visitatori a un viaggio che, nelle lacerazioni sociali e nei presentimenti di una guerra che sarà distruttrice, porta al cuore di un radicale rinnovamento dell’arte europea, che corre parallelo all’alba di quel secolo breve che ormai ci siamo lasciati alle spalle.
Ma le parole di Baudelaire erano rivolte all’anima segreta raccontata attraverso i disegni notturni e i sogni sconvolti di un maestro insospettabile come Victor Hugo, appena passata la metà dell’Ottocento. Eppure, tutto comincia da lì, con quei due quadri ossessionati di Gustave Moreau (Edipo e la sfinge e una delle tante versioni di Salomè), cui rispondono nella stessa sala alcune litografie della Tentation de St. Antoine e una fascinosa Sfinge a pastello di Odilon Redon e nella sala successiva Max Klinger .
E il curatore e ideatore della mostra Giandomenico Romanelli è lì, con i suoi assistenti e collaboratori, a rimirare quelle opere, viste e intraviste in gallerie pubbliche e collezioni private poco battute da critici e storici dell’arte, che raccontano il viaggio affannato verso la modernità. Insomma, mano a mano che i quadri trovano posto sui pannelli viola spento che lusingano le sale, la mostra prende forma e già va oltre le prefigurazioni. Giandomenico Romanelli si aggira impaziente da un quadro all’altro e spiega che si tratta, in moltissimi casi, di “opere poco note e segrete, addirittura esposte per la prima volta in questa occasione. Opere sorprendenti realizzate da artisti semisconosciuti da noi, ma grandissimi, come è il caso della straordinaria versione dantesca di Mirko Racki L’attraversamento dell’Acheronte”, un quadro di insolite dimensioni che gli operai hanno appena estratto dall’imballaggio.
E poi c’è la sala tutta dedicata a Kostantinas Ciurlionis, “il maggiore pittore lituano e al tempo stesso il musicista più importante di quel paese”. Ma già Romanelli si affretta verso un’altra sala con “le bellissime sessantaquattro chine acquerellate di Alberto Martini che saranno per tutti una sorpresa”. E poi tutta una parete riservata a Franz von Stük, che è già più di un presentimento dell’espressionismo, per non dire Hans Unger e Leo Putz. “Credo che il mio impegno preso lo scorso anno con la città per fare una mostra bella e importante, dice Romanelli, sia stato rispettato. Non solo per la qualità, che è alta, ma anche per la percezione che tutti questi artisti hanno di una modernità, che è al tempo stesso conquista e perdizione”.
E dopo avere ammirato un piccolo quadro segreto e misterioso di Ugo Valeri, giù di corsa per le scale, per vedere quella incredibile veduta di New York del veneziano Gennaro Favai, che con quest’opera va ben oltre la fama di vedutista sognante e postimpressionista. Non a caso questa New York che affonda nelle luci quasi spente e nei colori azzurrastri è anche il logo di una mostra tanto inconsueta quanto affascinante.