CARLO CAVRIANI
Cultura e spettacoli

‘Amarcord’: 50 anni di un sogno a occhi aperti

L’8 aprile del 1975 Federico Fellini vinceva l’Oscar per il miglior film in lingua straniera. Al Palazzo del Fulgor di Rimini una mostra speciale

Il regista sul set (archivio fotografico Federico Fellini)

Il regista sul set (archivio fotografico Federico Fellini)

Rimini, 6 aprile 2025 – Cinquant’anni fa, nella notte fra l’8 e il 9 aprile 1975, Federico Fellini si svegliava non per festeggiare, ma per lavorare. A Cinecittà, come ogni mattina, raggiunse il set del suo nuovo film, Casanova. Il telefono squillava da ore. L’Oscar – il quarto della sua carriera – gli era stato assegnato per Amarcord. Ma lui, il Maestro, non volò a Los Angeles. La statuetta, per il miglior film straniero, la ritirò il produttore Franco Cristaldi, impeccabile in smoking, al Dorothy Chandler Pavilion. Fellini invece scelse il rumore dei chiodi sul set, le impalcature, la sua troupe, e una routine creativa che rifuggiva le mondanità hollywoodiane. “Certo che mi fa piacere, è una conferma araldica”, disse quella stessa mattina. “Non pensavo proprio che mi premiassero di nuovo. Non ci pensavo, anche se ci speravo...”.

Amarcord – che in dialetto romagnolo significa ’mi ricordo’ – era il suo film più personale, più poetico, più intimo. Un sogno fatto a occhi aperti su una Rimini che esisteva solo nei ricordi e nell’invenzione. Fondamentale fu la collaborazione con Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore romagnolo. Uscito nel dicembre del ’73, il film era già diventato un classico. Raccontava la vita in un borgo negli anni Trenta, tra famiglia, scuola, carnevale e sabati fascisti. Un mosaico di personaggi felliniani: la Gradisca, la tabaccaia, la Volpina, lo zio Teo che urla dall’albero “Voglio una donnaaa!”.

La colonna sonora era di Nino Rota. Quella notte, però, Rota vinse l’Oscar per un altro capolavoro: Il Padrino–Parte II di Francis Ford Coppola, che conquistò anche la statuetta per il miglior film. Un trionfo italo-americano, ma Amarcord restava il cuore, la poesia, la terra. “Non è un film nostalgico”, spiegava Fellini. “È nato dal ricordo, sì, ma il ricordo è materia viva. Quando si parla della stupidità, dell’ignoranza, delle cose della vita in modo sincero, senza voler dare messaggi, allora si parla a tutti”. In quella notte in cui il cinema festeggiava, il mondo intorno cambiava. Il 4 aprile dello stesso anno, Bill Gates e Paul Allen avevano fondato la Microsoft. In mezzo al futuro che irrompeva, Amarcord sembrava un atto di resistenza poetica. “Sapere che il piccolo borgo di Amarcord, coi suoi personaggini, viene visto in Giappone come in America mi arricchisce, mi conforta”, diceva Fellini. Quella Rimini non c’era più, ma sullo schermo tornava viva: la nebbia che avvolge il nonno, il cortile, l’odore della piadina, il fascismo come parata ridicola e inquietante, l’Italia di sempre raccontata con ironia e pietà.

E in fondo, Amarcord è anche questo: un’epica dei piccoli.

A proposito di piccoli grandi uomini: per interpretare il capomastro Aurelio Biondi, padre di Titta – alter ego del regista – Fellini aveva pensato a Nereo Rocco, l’allenatore del Milan. Lo incontrò a Bologna, pranzarono insieme grazie all’amico Oreste Del Buono. “Era perfetto. Rozzo, sentimentale, romantico, antifascista”, ricordava Fellini. Ma Rocco declinò con la sua classica semplicità: “Il mio cinema è il campo”. Per celebrare questo anniversario, il Fellini Museum di Rimini ha preparato una mostra unica. Da martedì, 8 aprile, e per una settimana, al Palazzo del Fulgor saranno esposti tre materiali inediti che documentano il processo creativo di Amarcord: il trattamento originale del film col titolo dialettale E bourg, un dossier sul film in lavorazione e la rarissima scaletta del trailer originale. Il Palazzo del Fulgor, sarà aperto gratuitamente martedì 8 aprile, dalle 11 alle 17. Cinquant’anni dopo, Amarcord resta una lente attraverso cui guardare l’Italia: le sue miserie, i suoi sogni. Il paese delle maschere e delle malinconie. Rimini, forse, non è mai esistita così. Ma chiunque abbia visto il film, almeno una volta, ha pensato: “A m’arcord”.