di Lorenzo Muccioli
Trent’anni sembrano un’eternità. Ma se Luciano Baglioni, sostituto commissario della polizia di Stato che insieme al collega Pietro Costanza e al pm Daniele Paci contribuì alla cattura della banda della Uno bianca, riavvolge il nastro, ecco che la mente torna subito a quei primi giorni del novembre del 1994.
Baglioni, dov’eravate lei e Costanza?
"In questura, a Bologna. Avevamo già intercettato Fabio Savi, fuori da una banca a Santa Giustina. Eravamo lì per svolgere degli accertamenti sul fratello Roberto. Quando aprimmo il suo fascicolo, due degli agenti che erano lì in ufficio esclamarono: ma quello è un collega, è uno dei nostri. Se volete, ve lo andiamo a chiamare. Ci si gelò il sangue. Fu lì che iniziammo a capire che tra i componenti della banda c’erano uomini in divisa".
Avanti veloce. E’ la sera del 21 novembre dello stesso anno e siamo sempre a Bologna. Cosa succede?
"Sono da poco passate le 19, Roberto Savi è appena entrato in servizio. Viene fermato nella sala operativa della questura. Poi perquisiscono il suo garage e salta fuori di tutto: pistole, fucili munizioni, esplosivi. Era la svolta che aspettavamo. Ma fu anche uno choc tremendo: scoprire che un collega fosse uno dei killer a cui davamo la caccia".
Torniamo indietro di sette anni. Tre ottobre 1987, casello autostradale di Cesena.
"Stiamo scortando Savino Grossi, l’imprenditore ricattato dalla banda. Io sono in macchina, alla guida. Con me ci sono il sovrintendente Antonio Mosca e Ada di Campi. All’improvviso, dal cavalcavia, parte una pioggia di piombo. I proiettili volavano dappertutto. Sembrava la guerra del Vietnam, eravamo in Romagna, in A14".
Lei rispose al fuoco?
"Sparai in direzione di una sagoma che stava risalendo il pendio. Solo qualche anno più tardi avrei scoperto che quello era Fabio Savi. Lo presi di striscio, il proiettile trapassò il suo impermeabile. Una questione di centimetri, e forse, chi può dirlo - con uno dei Savi feriti - la storia della Uno bianca si sarebbe potuta concludere quel giorno. Ci saremmo risparmiati sette anni di morti e terrore".
Poi cosa accadde?
"La banda scomparve nel nulla e fu come risvegliarsi da un incubo. Mi guardai attorno. Mosca aveva un foro all’altezza dello zigomo. Sarebbe morto due anni dopo, lasciando un dolore immenso. Anche Di Campi e Luigino Cenci, che era sull’altra macchina, erano stati feriti gravemente".
Il suo collega, Pietro Costanza, dichiarò, a proposito delle indagini: qualcuno da lassù ci ha guidato. Lei crede nel fato?
"Penso che nel nostro mestiere la fortuna giochi un ruolo importante. Da sola però non basta. Servono dedizione, impegno, e quell’acume investigativo che ti fa notare particolari che per le altre persone sarebbero invisibili. E’ una questione di dettagli. Così fu quel giorno, quando scorgemmo in Fabio Savi degli elementi che ci spinsero a seguirlo fino a Torriana. E poi noi avevamo studiato a fondo il caso, in modo matto e disperato, conoscevamo ogni singolo dettaglio".
Com’era lavorare con Costanza?
"Eravamo una coppia affiatata. Bastava uno sguardo per capirci al volo. Insieme abbiamo lavorato a un’infinità di casi".
E per quanto riguarda il pm Paci? Quale fu su la sua intuizione più importante?
"Paci ebbe un grande merito. Quello di riunire in un unico fascicolo fatti ed episodi che fino ad allora erano stati trattati separatamente da Procure diverse. Lui era il perno attorno a cui ruotava il pool di carabinieri e poliziotti che lavorava alle indagini, il collante che ci ha permesso di rimanere uniti e andare avanti".
Quello della Uno bianca è un caso chiuso? O ci sono misteri irrisolti?
"No, per quanto mi riguarda. Nell’attività che abbiamo svolto, non abbiamo mai incontrato intoppi o incongruenze. Forze dell’ordine, magistratura e istituzioni: tutti hanno fatto la loro parte. So però che i familiari delle vittime hanno presentato un esposto per fare luce su alcune questioni. Se ci sono elementi da approfondire, è giusto che si proceda in tal senso".
E lei? Di cosa si occupa Luciano Baglioni ora che non deve più rincorrere i criminali?
"Mi dedico alla famiglia. E poi giro le scuole, tantissime scuole, da Nord a Sud. Racconto agli studenti cosa furono quegli anni. Lo considero un onore".