Rimini, 4 dicembre 2018 - Prima spiata da un finto collega che in realtà era un investigatore privato. Poi licenziata dai titolari del bar dove lavorava, con l’accusa di essersi intascata parte degli incassi. Ma qualche settimana fa il giudice Lucio Ardigò, esaminato il caso, ha dato ragione alla barista riminese, difesa dall’avvocato Paolo Lombardini, e ha annullato il licenziamento. La donna ha deciso (è comprensibile) di non tornare più a lavorare nel locale e ha ottenuto un risarcimento di circa 40mila euro - pari a 27 mensilità e i relativi contributi - e anche il pagamento di 2.500 euro di spese legali.
La vicenda era iniziata un anno fa, quando (a fine dicembre) la donna viene licenziata da un noto bar di Rimini in cui lavorava come barista da tempo. Causa del licenziamento erano gli ammanchi dalla cassa del locale, tra novembre e dicembre, di cui la donna veniva accusata. In alcuni casi si sarebbe intascata i soldi, in altri - secondo le accuse - o non aveva emesso gli scontrini o aveva fatto lo sconto ad alcuni clienti. E’ venuto fuori però che gli addebiti contestati alla barista fossero stati rilevati non con le telecamere nel bar, ma tramite le soffiate di un investigatore privato, assunto dal locale (per un breve periodo) come apprendista solo per spiare la donna.
Gli accertamenti hanno smentito le colpe addossate alla barista: gli ammanchi erano minimi (pochi euro) e il giudice ha ritenuto «carenti» le indagini nei suoi confronti. Non solo: per il giudice il bar non poteva assumere come barista l’investigatore privato, perché «il lavoratore va impiegato per le mansioni per le quali è assunto». Il licenziamento pertanto è stato annullato, e la donna ha ottenuto il risarcimento.