REDAZIONE RIMINI

Sacchi, la grande bellezza: "Rimini tra sogni e passione, città sempre nel mio cuore. Lì è nato il mio calcio totale"

L’allenatore che ha cambiato il panorama mondiale del pallone, ripercorre gli anni ’80 tra energia, visioni rivoluzionarie, ispirazioni e il desiderio di incontrare Federico Fellini.

La rosa del Rimini, stagione 1984-85. Prima fila in piedi da sin.: il preparatore Ghinelli, Bianchi, Zannoni, Borghini, Boldrini, Ferrari, Rocco, Frosio,. Sacchi (all.); in mezzo da sin.: Pianori (mass.), Sormani, Manzi, Saveriano, Cangini, Zamagna, Mastini,. Albani (magazz.); in basso da sin.: Pierozzi, Righetti, Protti, Mattei, De Luca, Galassi, Cristiani.

La rosa del Rimini, stagione 1984-85. Prima fila in piedi da sin.: il preparatore Ghinelli, Bianchi, Zannoni, Borghini, Boldrini, Ferrari, Rocco, Frosio,. Sacchi (all.); in mezzo da sin.: Pianori (mass.), Sormani, Manzi, Saveriano, Cangini, Zamagna, Mastini,. Albani (magazz.); in basso da sin.: Pierozzi, Righetti, Protti, Mattei, De Luca, Galassi, Cristiani.

Arrigo Sacchi, l’allenatore che ha rivoluzionato il calcio, rivive a cuore aperto il legame con Rimini e la Rimini di 40 anni fa. Città che ha segnato i suoi inizi. È stata il laboratorio dove ha affinato le idee che avrebbero rivoluzionato il calcio. Tra aneddoti, giovani talenti e la passione del presidente Cappelli, Sacchi racconta il periodo che ha gettato le basi per diventare un maestro del calcio totale.

Sacchi, partiamo dai suoi inizi a Rimini. Che cosa rappresenta per lei quell’esperienza?

"Rimini è sempre nel mio cuore. Ancora oggi, ogni lunedì guardo il risultato, è la prima squadra che controllo. Quegli anni sono stati fondamentali per la mia crescita. Rimini era una città piena di energia, un luogo perfetto per testare le mie idee innovative sul calcio e organizzative. Fu un laboratorio straordinario, una palestra incredibile per la mia carriera".

Quando arrivò al Rimini, come fu accolto?

"Non fu facile, lo ammetto. Un giornale locale, ad esempio, scrisse: ‘Per favore, non facciamo certi nomi,’ riferendosi a me. La tifoseria era delusa dalla retrocessione in C1 e sperava in un grande nome per risollevare il morale. Nella lista di possibili allenatori c’erano campioni blasonati come Angelillo, Domenghini e Lauro Toneatto. Io ero un outsider, un allenatore sconosciuto che veniva dalla Primavera del Cesena, figurati. Quella diffidenza iniziale, però, mi diede una motivazione straordinaria. Volevo dimostrare che con il lavoro, le idee e l’intelligenza si potevano ottenere risultati straordinari".

Dove viveva?

"Nella zona mare, in una camera della pensione “Da Quinto”, semplice ma strategica. Era una scelta pratica, ma anche un piacere: la vitalità della zona e il suono del mare mi davano energia. Rimini aveva un fascino unico, che mi ricordava molto Federico Fellini. Fellini è uno dei miei artisti preferiti, e il suo film ‘Amarcord’ è un capolavoro che porto sempre nel cuore. Io e Fellini, in fondo, eravamo due visionari: lui con il cinema e io con il calcio. Condividevamo lo stesso amore per la creatività e l’innovazione. Ho un grande rammarico per non averlo mai conosciuto: sarebbe stato un privilegio confrontarmi con lui, anche solo per una chiacchierata".

A Rimini ha conosciuto un presidente particolare, Dino Cappelli. Che ricordi ha di lui?

"Dino Cappelli era un uomo buono, generoso, con una passione viscerale per il calcio. Rischiava tutto per il Rimini, accumulando debiti enormi che mettevano a rischio anche la sua azienda. Viveva le partite come un tifoso qualunque: non andava in tribuna, ma si aggrappava alla rete dietro la porta e la masticava per il nervosismo. Dopo la retrocessione mi chiese cosa fare. Gli risposi: ‘Vendiamo tutto e puntiamo su giovani bravi, senza spendere troppo.’ Lui si fidò di me, e così iniziò una nuova avventura, costruendo una squadra piena di entusiasmo".

Tra i giovani che portò con sé nella prima stagione 1982-83, c’era Daniele Zoratto. Quanto fu importante per lei?

"Zoratto era il perno del mio sistema di gioco, il mio allenatore in campo. Era intelligente, disciplinato e capace di leggere le situazioni meglio di chiunque altro. Aveva una straordinaria fedeltà al progetto, ed era disposto a sacrificarsi per il collettivo. L’ho portato anche in Nazionale. Lui è stato per il Rimini ciò che Carlo Ancelotti è stato anni dopo per il Milan. Ricordo ancora quando chiamai Berlusconi per dirgli: ‘Presidente, compriamo Ancelotti e vinciamo lo scudetto.’ Lui si fidò, e Carlo fu decisivo. Zoratto aveva la stessa importanza".

E nella stagione 1984-85, c’era anche Pierluigi Frosio, il capitano. Che ruolo ebbe nella squadra?

"Frosio è stato un leader straordinario, un esempio per tutti. Ricordo che al primo allenamento si presentò con 40 di febbre. Non voleva che qualcuno pensasse fosse un raccomandato. Questo dimostra il suo spirito e la sua dedizione. Diceva spesso: ‘Non mi sono mai divertito tanto, anche se è stato l’anno in cui ho lavorato di più.’ La sua esperienza e il suo carisma erano fondamentali per trasmettere i miei concetti ai compagni". Quali altri giocatori del Rimini ricorda con affetto?

"C’erano giovani interessanti, come Gabriele Zamagna e Gianluca Gaudenzi, che poi portai con me al Milan, come Walter Bianchi. E poi Fernando De Napoli, che iniziò con noi la sua straordinaria carriera. Non cercavo solo piedi buoni, ma intelligenza, fedeltà e dedizione".

Rimini in quegli anni era una città particolare. Come la descriverebbe?

"Rimini era un luogo unico. Negli anni Ottanta era la capitale del divertimento, il simbolo della rinascita italiana. Le colline tra Rimini e Riccione ospitavano le discoteche più grandi d’Italia, e c’era un’atmosfera elettrizzante. La stagione calcistica iniziava spesso con una presentazione al Bandiera Gialla, uno dei locali più in voga. Ricordo che in un’occasione, dopo la nostra presentazione, doveva cantare Vasco Rossi. Era impossibile non sentire l’energia di quella città, che mescolava svago, cultura e ambizione. Era una città che ti spingeva a sognare in grande".

Il calcio che proponeva era molto diverso da quello tradizionale italiano. Come reagirono i suoi giocatori?

"All’inizio ci fu scetticismo, ma poi entusiasmo. Dicevo sempre: ‘Ogni giocatore diventa leader quando ha la palla, ma senza palla deve essere sempre attivo.’ Il pressing alto, il movimento continuo e il gioco corale erano concetti nuovi per molti. Non dimenticherò mai quando un calciatore mi disse: ‘Se mi muovo senza palla, la tv non mi inquadra.’ Gli risposi: ‘Hai sbagliato mestiere, dovevi fare l’attore!’ Alla fine, però, tutti capirono l’importanza del collettivo".

Guardando indietro, cosa le ha insegnato Rimini?

"Mi ha insegnato che con il lavoro e le idee si può costruire qualcosa di speciale anche nei contesti più difficili. Mi ha mostrato che l’intelligenza e la fedeltà valgono più del talento puro, perché è con quelle qualità che si costruisce un gruppo vincente. Senza quegli anni non ci sarebbe stato il Milan degli invincibili".

Carlo Cavriani