REDAZIONE RIMINI

Noi eravamo a Beirut, memorie dall’inferno

Il riminese Stefano Carlini racconta in un libro i giorni della missione in Libano. L’incontro con il parà Nespoli e la Fallaci

Stefano Carlini aveva 26 anni quando tutta la sua vita diventò qualcosa di terribile e nuovo per parecchio tempo: quella cosa normale che si chiama guerra. La normalità delle bombe, dei suoni di notte, dei missili lontani, della fame che prima o poi arriva, della paura dappertutto. Sono passati quasi 40 anni, ma sembra ieri.

Il riminese Stefano Carlini voleva fare il giornalista, alla fine è diventato un grande esperto di fitness. Ma il desiderio di raccontare quello che ha vissuto e ha segnato la sua esistenza gli è rimasto. Ha voluto raccogliere le sue memorie di guerra. "Con gli occhi di adesso ma con le emozioni di allora", dice.

Tutto cominciò una mattina d’ottobre quando a bordo di un Hercules C 130 assieme a 27 infreddoliti marò del Battaglione San Marco, partì diretto a Beirut per la Missione Italcon, un’operazione di pace condotta dal 1982 al 1984 dalle forze armate italiane in Libano con Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna. Erano i primi d’ottobre del 1983 quando giunse in Libano (poco dopo le famosi stragi di Sabra e Chatila) e ci rimase fino al febbraio dell’anno dopo. E’ l’arco temporale in cui si racchiude “Come traccianti nella notte - quando eravamo a Beirut“ (Maginotedizioni, 2020, pp 148) una serie di racconti su quell’operazione. C’è l’incedere di fatti straordinari, ma frammisti alla noia delle attese interminabili, alle guardie, al freddo, quando "potevi vedere quei fanatici dei libanesi di notte che sparavano un caricatore pieno di traccianti, quindi una raffica lasciava una scia luminosa incredibilmente lunga, bella e suggestiva. Quando tutti sparavano contro tutti, la notte diventava uno spettacolo di suoni e colori".

Una descrizione ben fatta, un’immagine, valgono più di tante statistiche e ricostruzioni storiche. Ricordare che il 23 ottobre del 1983, "mentre in Italia Zico giocava le prime partite con l’Udinese", un doppio attentato delle milizie armate islamiche di Hezbollah contro le truppe francesi e americane faceva in tutto quasi 300 vittime, non fa del tutto giustizia delle condizioni terribili di quel conflitto. Eppure, la descrizione di quelle catastrofiche esplosioni, "era come se le molecole dell’aria attorno a noi impazzissero", rende benissimo il caos misto al carnale orrore della situazione.

Nell’umanità variegata che stava a Beirut agivano anche ufficiali coraggiosi, leali, pronti a difendere i loro soldati e a morire lanciandosi nelle cariche di fronte a tutti. Lo fa capire bene Carlini quando parla del comandante Pierluigi Sambo, capitano di fregata: "esprimeva in pieno il dono che gli era stato assegnato alla nascita: comandare, non semplicemente occupare un posto di comando, ma comandare e farsi amare, connubio che è dote rara, difficile da trovare, e quando trovi uno così, non puoi fare altro che innamorarti".

La genesi del libro trae spunto da uno zibaldone, con schizzi e disegni che Carlini aveva buttato giù ai tempi della missione. Poi grazie all’aiuto dei compagni del Battaglione San Marco, ritrovati nel corso degli anni attraverso Facebook, è riuscito a dar forma a racconti puntuali e precisi. Del resto la guerra è uno dei soggetti più popolari, tra i letterati, tra i film, tra le serie tv. Più dell’amore. La guerra affronta la questione del coraggio e della codardia, quella della perdita d’identità individuale e collettiva di fronte alle rovine, esaspera le passioni, infrange i tabù, stravolge i modi di pensare. La guerra racchiude tutto questo drammaticamente in sé.

Tra le pagine del libro, Carlini racconta anche il flirt tra l’attendente del generale Franco Angioni, Paolo Nespoli, futuro astronauta, e Oriana Fallaci la giornalista inviata in Libano per documentare la guerra. A Nespoli fu ordinato di scortare la giornalista durante la sua permanenza ed evitare che si trovasse in situazioni pericolose. Da quell’esperienza, la Fallaci scrisse “Insciallah”, un’opera corale che prendeva spunto proprio dalla missione occidentale di pace a Beirut. Assegnò un nome inventato ad alcuni militari che meritarono di essere raccontati. Carlini divenne Alessandro, "quello che da civile avrebbe voluto diventare giornalista".

Le pagine di “Come traccianti nella notte“, sono appassionanti perché scritte con stupore, candore, e poi via via, con paura, angoscia.

Sono i pensieri che tanti soldati conservavano sotto il materasso e che oggi arrivano tutti insieme, in questo libro, come un bastimento di emozioni, di piccole storie e di riti quotidiani: come il copriorologio, "per evitare che il riflesso rivelasse la posizione a un eventuale cecchino. Precauzione forse eccessiva ma a noi piaceva portare quella fascia color verde militare che si attaccava e staccava con un velcro". Il libro è uno strumento per viaggiare nel tempo, ascoltare i discorsi dei soldati, percepire gli odori, sentire i rumori, provare la paura, vedere gli orrori, desiderare il ritorno a casa.

Restano immagini tristi dei ragazzini magri e mal vestiti del campo profughi di Chatila, ma anche i volti delle "donne che cucinavano cibi dall’aroma pungente e speziato. E il buio della notte solcato dai traccianti e attraversato dalla voce dei muezzin. Tutto questo era la nostra vita. La nostra Beirut. Il nostro brutale rituale di passaggio tra la gioventù e l’età adulta. E così sia. Anzi, e così fu".

Carlo Cavriani