di Lorenzo Muccioli
RIMINI
Non poteva accettare il tradimento della donna a cui era stato legato sentimentalmente: per Dritan Demiraj, quell’onta andava lavata nel sangue. Per avere la sua vendetta, il pasticcere albanese aveva messo in atto un piano diabolico, culminato in un duplice omicidio: quello di Silvio Mannina, che aveva torturato e ucciso la sera del 28 febbraio del 2014, dopo averlo attirato in una trappola a Rimini con la complicità dell’amante Monica Sanchi; e quello dell’ex compagna Lidia Nusdorfi, massacrata il giorno seguente con 11 coltellate nel sottopasso della stazione di Mozzate, nel Comasco. Dieci anni dopo, la vita - prima ancora che la giustizia - ha chiuso i conti con Demiraj. Il killer del lago Azzurro di Santarcangelo di Romagna, lì dove il corpo sfigurato di Mannina era stato gettato dopo il delitto, è morto giovedì scorso in una stanza del reparto Geriatria dell’ospedale di Parma. Ci era finito otto anni fa, dopo essere stato pestato con pugni e calci da un ex pugile romeno, nei corridoi del carcere, e da allora non l’aveva più lasciata, rimanendo inchiodato al letto, con un forte deficit di memoria e comprensione dovuto a danni cerebrali irreversibili. A causa delle sue condizioni cliniche, il killer era stato dichiarato "incapace di intendere e volere": nel 2017 era così tornato formalmente libero, dopo che la Corte di Assise d’Appello di Bologna, applicando alla lettera la riforma Orlando, aveva sentenziato per lui il "non luogo a procedere". Per i familiari di Demiraj (che era difeso dall’avvocato Massimiliano Orrù del foro di Rimini) potrebbe ora aprirsi la strada di una possibile richiesta di risarcimento per il pestaggio subito in carcere.
Anche Dritan, come già Monica Sanchi, ha dovuto fare i conti con un destino cinico, quasi una sorta di maledizione, che sembra perseguitare gli attori e i comprimari di questa dark story. L’ex amante di Demiraj era stata condannata a 30 anni di carcere: nel 2019, una neoplasia al midollo spinale se l’è portata via dopo averla confinata a letto in stato di paralisi. "Non sono un mostro, non giudicatemi troppo severamente" aveva implorato, prima di morire. Giurando che se fosse tornata indietro, avrebbe impedito a Ditran di massacrare due persone. "La mia maledizione è stata quella di incrociare la sua strada. Di averlo amato" aveva detto. Sadik Dine, lo zio di Ditran, sta scontando una condanna all’ergastolo nel carcere di Ferrara, diventata definitiva in Cassazione dopo che la Corte d’Appello aveva ribaltato la condanna di primo grado a cinque anni per occultamente di cadavere. Ventotto anni è invece la pena inflitta al quarto protagonista della vicenda, un amico di Demiraj, all’epoca dei fatti minorenne.