REDAZIONE RIMINI

Mafia, il killer pentito era di casa a Rimini

Le rivelazioni del sicario di Cosa Nostra, Gaspare Mutolo: "Stavamo in via Garibaldi, da qui partivamo per svaligiare le case"

Morti ammazzati, rapine, sequestri. Una vita al fianco di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, di cui fu braccio destro e fedele autista. Nella sua lunga carriera criminale Gaspare Mutolo, detto Asparinu, non si è fatto mancare nulla. Nemmeno un pentimento, arrivato dopo la condanna nel maxiprocesso di Palermo. Condanna che in seguito lo avrebbe spinto a raccogliere l’invito di Giovanni Falcone, diventando collaboratore di giustizia. Una vita da romanzo quella dell’82enne palermitano. Un romanzo composto da tanti capitoli, che raccontano una storia di malavita, soldi sporchi e sangue, a cavallo tra anni Cinquanta e Novanta. Uno di questi capitoli, si scopre ora, ha come ambientazione proprio la nostra città.

In una lunga intervista esclusiva rilasciata al direttore di Oggi Carlo Verdelli, l’ex sicario mafioso ha ripercorso i suoi primi passi nel mondo della criminalità, quando non ancora ventenne, in compagnia di altri ‘compari’, aveva seminato il terrore in tutto il Nord Italia. "Facevamo furti nelle case. Di base stavamo a Rimini, in via Garibaldi, nella stanzetta sopra al ristorante della sorella di Michele e Salvatore Vizzini, nipoti del famoso Don Calò. Allora – prosegue Mutolo – non esistevano le porte blindate. Facevamo finta di essere rappresentanti della Fabbri Editore e suonavamo alle case più belle. Se aprivano, mostravamo gli opuscoli delle enciclopedie, altrimenti le svaligiavamo. Giravamo tutta l’Italia, al sabato rientravamo a Rimini".

Tutto questo avvenne prima del 1965, anno dell’incontro con Riina, nell’ottava sezione del carcere dell’Ucciardone, in Sicilia. Fu lui a consigliargli di entrare in Cosa Nostra, dicendogli "uccidere è molto più facile che rubare". Un ingresso poi di fatto sancito nel 1973 con un rito di iniziazione, quello della ‘Santina bruciata’. Quasi cinquant’anni dopo, ecco un altro gesto simbolico: togliersi dal volto la maschera, sempre indossata durante i processi per celare la sua identità di collaboratore di giustizia, e farla a pezzi.

Un pedigree criminale di tutto rispetto, si diceva. Asparinu fu infatti coinvolto nell’omicidio dell’agente Gaetano Cappiello, così come in quello di Santo Inzerillo, fratello del boss Totuccio. Per molti anni si dedicò al traffico di droga: attività remunerativa, che per un certo periodo gli assicurò una vita di agi. Girava in Ferrari e possedeva appartamenti. Prima dell’arresto, su mandato di Giovanni Falcone, avvenuto nel 1982. Per lui si spalancarono le porte del carcere di massima sicurezza di Sollicciano.

Fu proprio qui che il killer brutale, che fino ad allora si era reso responsabili dei crimini più efferati, con alle spalle venti omicidi eseguiti di persona, scoprì di avere anche un lato sensibile. Asparinu si rese conto di essere perfettamente a suo agio con chine e pennelli. Abbracciò la pittura, passione che lo accompagna ancora oggi che ha pagato il suo conto con la giustizia. Le dichiarazioni da lui rese ai magistrati contribuirono ad incastrare numerosi affiliati alla Cupola: a fare scalpore furono soprattutto quelle contro i politici, a cominciare da Salvo Lima.

Lorenzo Muccioli