di Lorenzo Muccioli
"Il carabiniere ha fatto solo il suo dovere, nessuno nella nostra comunità punta il dito contro di lui. Ha agito in quel modo per salvare la sua vita e quella di tante altre persone. Ci domandiamo però perché nessuno abbia fatto nulla per aiutare Muhammad a curarsi. Erano mesi che dava segni di squilibrio mentale. Ormai non era più in sé da tempo, eppure è stato lasciato solo e nessuno, neppure chi doveva assisterlo, si è accorto di nulla". Sono le parole Aly Harhash, rappresentante della comunità egiziana di Milano, che dal 1° gennaio scorso è in contatto con gli amici e i parenti di Muhammad Abdallah Abd Hamid Sitta, il 23enne che la notte di Capodanno ha accoltellato quattro persone a Villa Verucchio prima di essere neutralizzato con cinque colpi di pistola dal comandante della stazione dei carabinieri, il luogotenente Luciano Masini, ora indagato per eccesso colposa di legittima difesa.
Harhash ripercorre le diverse tappe dei due anni trascorsi in Italia da Sitta, a cominciare dal suo arrivo come immigrato irregolare nel novembe del 2022. "Il ragazzo – spiega – è passato attraverso tre diverse comunità, prima di arrivare in quella di Villa Verucchio che lo ospitava. Nonostante rientrasse in un progetto ministeriale e cercasse di darsi da fare, non era riuscito a trovare un lavoro stabile. Soffriva molto per questa cosa, perché sperava di poter aiutare la sua famiglia rimasta in Egitto. Non solo non era riuscito a mandare soldi in patria, ma addirittura aveva difficoltà a provvedere a se stesso". Secondo il racconto fatto ad Harhash dagli amici del 23enne, "i primi segni di squilibrio mentale avevano incominciato a manifestarsi alcuni mesi fa. Muhammad non stava più bene in Italia, voleva tornare a tutti i costi in Egitto. Si comportava in modo strano, qualche volta parlava da solo. Gli amici hanno cercato di aiutarlo, lo hanno accompagnato in ospedale per farlo visitare, ma da quel che sappiamo non ha mai seguito le cure che gli erano state prescritte".
A rompere definitivamente quel delicato equlibrio sarebbe stato un episodio, avvenuto diverse settimane fa, sul quale però al momento gli inquirenti non hanno riscontri. "Sitta è stato vittima di una rapina. Gli hanno portato via soldi, documenti e il monopattino che usava per spostarsi. Questa vicenda lo ha segnato molto. Temeva che non sarebbe più potuto tornare in Egitto". Esistono in realtà varie procedure che consentono il rimpatrio volontario, ma è molto probabile che l’egiziano (titolare di un permesso di soggiorno per la protezione speciale con scadenza ad aprile 2026) non ne fosse a conoscenza. Si arriva così al pomeriggio del 31 dicembre, quando il 23enne viene visto dagli amici per l’ultima volta in corso Papa Giovanni XXIII, a Rimini, nei pressi della moschea. "Sitta era disperato – aggiunge Harhash – aveva lo sguardo perso nel vuoto, continuava a muovere la gamba in modo frenetico. Gli amici gli facevano delle domande, ma lui rispondeva a stento o sembrava non sentire. Si era autoconvinto che se avesse combinato qualche guaio, un reato di qualche tipo, le forze dell’ordine lo avrebbero rispedito in Egitto gratuitamente. E’ un pensiero assurdo, lo so, ma non dimentichiamo che parliamo di un ragazzo con problemi mentali. Addirittura ha chiesto ad un amico dei soldi per andare a comprare della benzina da mettere in una bottiglia d’acqua: con quella avrebbe voluto dar fuoco a qualcosa nella speranza di essere arrestato. Chi era con lui ha cercato di farlo ragionare. Alcuni egiziani si sono offerti di pagargli il biglietto aereo e hanno detto che avrebbero contattato il consolato per aiutarlo a tornare a casa". "Questa cosa – aggiunge Harhash – sembrava averlo rincuorato, ma poi è tornato a Villa Verucchio. Chissà... forse ha pensato che ferendo qualcuno con il coltello, sarebbe stato fermato e lo avrebbero reimpatriato. Tant’è vero che, dopo aver commesso la prima aggressione, è tornato sul posto anziché fuggire. Gli amici sono certi, però, che non fosse un terrorista. Non beveva e non si drogava. Era una persona malata". La drammatica conclusione, secondo Harhash, si sarebbe potuta evitare, se "solo si fosse prestata la dovuta attenzione ai sintomi mostrati dal ragazzo".