Lei, una giovane madre, ha vissuto il dramma della tratta delle ragazze che dalla Nigeria approdano alla nostra terra, illuse di trovare un lavoro che non sia quello che poi, una volta qui, si ritrovano costrette a fare: vendere il proprio corpo per arricchire altri. In questo caso la ragazza ha trovato la forza per sottrarsi alla schiavitù e denunciare un’altra donna, una connazionale che, dopo il rinvio a giudizio del giudice dell’udienza preliminare Andrea Rat, dovrà rispondere davanti al collegio dei giudici di sfruttamento della prostituzione aggravato. I fatti contestati sono avvenuti in una casa nella zona della stazione, dal gennaio al maggio 2020: la 35enne avrebbe costretto la giovane ad avere rapporti sessuali con connazionali direttamente contattati da lei, almeno due-tre al giorno, dietro pagamento. I soldi sarebbero stati consegnati direttamente alla ‘madame’, quale rimborso per il viaggio della ragazza dalla Nigeria all’Italia.
Nel suo Paese d’origine la giovane aveva contratto un debito, il cui pagamento era stato al centro di un giuramento con rito voodoo: solo che, come spesso emerso in vicende simili, questo ‘mutuo’ diventa di fatto inestinguibile perché la ragazza si ritrova costretta a prostituirsi sotto minaccia e vittima di violenze perché consegni i soldi. La 35enne avrebbe mantenuto sull’altra ragazza un costante controllo, impedendole di muoversi liberamente: l’avrebbe accompagnata in chiesa o nel cortile di casa, avrebbe prelevato lei stessa il denaro che le inviava il padre di sua figlia e le avrebbe impedito di chiamare i parenti in sua assenza. La presunta ‘maitresse’ deve anche rispondere di lesioni: avrebbe preso a pugni la donna e la figlia minorenne, il 23 maggio 2020, per impedire loro di allontanarsi dalla casa dove la parte offesa doveva prostituirsi. La piccola aveva riportato una contusione alla caviglia giudicata guaribile in dieci giorni. La ragazza non si è costituita parte civile. La difesa, affidata all’avvocato Costantino Diana, ha deciso di non avvalersi del rito abbreviato perché intende ascoltare e interrogare la parte offesa nel rito ordinario.