Reggio Emilia, 3 aprile 2016 - Non si sa se ridere o piangere. In questa provincia – di cui gli stranieri ignorano la collocazione fino a quando non dici «Modena» e «Ferrari» mentre oscilli la mano intendendo «lì vicino» – c’è un solo luogo famoso in tutta Europa: il castello di Canossa. Meglio sarebbe dire Canossa, perché il castello non c’è: l’abbiamo incendiato noi reggiani, confermando (basti pensare alla Reggia di Rivalta) un’antica vocazione all’autolesionismo.
Ma chi vive nel folto della Foresta Nera, non lo sa: studia Matilde e l’Imperatore sui libri e viene qui baldanzoso. E fa bene: perché in certe giornate l’aria che spira sulla rupe e sulle pietre sopravvissute a tutte le guerre si mescola al respiro profondo di una storia millenaria.
E noi? Lo chiudiamo. Manca il personale. Anzi: vogliamo salvarlo, però nel giorno di Pasqua vige ancora l’orario invernale e quindi amen, tutti fuori dalle scatole alle quattro e mezzo del pomeriggio. Turisti scacciati (ieri è accaduto a Rossenella), turisti traditi che non torneranno mai più.
DI CHI è la colpa? Non si sa bene, ma è lontana: Bologna, Roma, chissà. Le amministrazioni del passato, dice quella attuale (a pagina 22), non hanno fatto nemmeno le fogne: il borgo sversa direttamente sui calanchi.
Il quadro può così dirsi completo: apertura del castello incerta, rupe in dissesto, strade d’accesso in parte franate, ristorante chiuso, parcheggio provvisorio.
Ecco come trattiamo il vanto del nostro passato. Ecco (eccezion fatta per il Bianello) come trattiamo i nostri castelli.
Un turismo in abbandono, dal Po al crinale. Senza uno straccio d’idea, di programmazione. Lasciato interamente all’ingegno e al rischio degli operatori privati.
Nella rassegnazione universale gli amministratori chiacchierano. Si ascoltano. Discutono da decenni di navigabilità del Po. Di turismo estivo in Appennino. Di fiere piene di gente (come oggi al Camer) eppure assurdamente condannate a morire, insieme a qualche albergo cittadino.
E allora arrivederci al solito convegno. Per i soliti auspici, i soliti bigné.