di Glaucio Bertolini
Le rimembranze storiche non saranno certo nelle corde dei girini che fra poco pedaleranno lungo le nostre colline da San Polo a Ponte Dolo, ma è un fatto che, per la centoquattresima volta, il Giro d’Italia si ripete grazie a circostanze che hanno avuto una culla reggiana. Perché reggiani erano stati cuore e sentire, nonostante il cognome francese, del suo vulcanico inventore.
Si chiamava Armando Cougnet. Era stato combattente, pioniere del giornalismo, organizzatore sportivo di primo piano, atleta lui stesso. Il nome di Cougnet è tuttora legato all’edificio storico monumentale che in zona Santa Croce (via Adua 57) ora ospita anche una biblioteca decentrata e servizi sociali: il Comune l’aveva acquisito e restaurato nel 1985; in precedenza aveva subito alcuni passaggi di proprietà (tra cui Curia, Officine Reggiane), partiti dalla vendita che della villa settecentesca aveva fatto il padre di Arnaldo (possessore dal 1880), Alberto Cougnet. Quest’ultimo, con la famiglia, s’era ritrovato in terra reggiana per una scelta d’italianità operata a suo tempo da Carlo Cougnet, nonno di Armando: costui, modesto impiegato nizzardo, quando i Savoia avevano ceduto la sua città alla Francia era stato fra i pochi che avevano scelto di trasferirsi nell’adolescente stato italiano, ottenendo in seguito – proprio a Reggio – la “regìa” (così si diceva all’epoca) di “sali, tabacchi e chinino” per tutta la nostra provincia.
Morto Carlo, Alberto – pur laureato in medicina a Napoli e perfezionato a Parigi e a Londra – si innamorò (con scelta stravagante per tempi in cui lo sport si chiamava “diporto”) di lotta, pugilato e scherma. Con un debole per quest’ultima, tanto da meritare il plauso del maestro schermidore Melato, padre della nota attrice Maria. Tanto da scriverne in maniera divulgativa su importanti quotidiani. Tanto da venire annoverato fra i padri della medicina sportiva.
Il fuoco che portava dentro lo spinse a iniettarne il fervore nel figlio Armando, che a soli diciotto anni in due soli giorni pedalò per 300 chilometri: Reggio-Milano e ritorno.
Ma ormai a Milano (e anche un po’a Lugano) si era trasferita tutta la famiglia, che nella villa reggiana soggiornava solo d’estate. E Armando, a Milano, sviluppò contatti che gli consentirono di fondare (con Costamagna e Morgagni), quella “rosea” Gazzetta dello Sport che, in effetti, nei primi tempi veniva stampata su carta verdognola.
E’ a questo punto che, tutta sua, nasce l’idea di dar vita a un giro ciclistico d’Italia. Che lui riesce a far partire con tanti chilometri (3.000) e pochi premi (per un totale di 25.000 lire), tra il malcelato risentimento del Corriere della Sera che si ritiene indebitamente affiancato nella gestazione del suo Giro Automobilistico.
In Gazzetta, partito come co-amministratore , Armando sarà per 40 anni a capo dell’Ufficio Organizzazione, partecipando all’allestimento delle più importanti gare dell’epoca (Milano-San Remo, Circuito del Lario, Raid Nord-Sud).
Tra alti e bassi, però. Nel 1911 la guerra in Libia paralizzò il mondo sportivo e lui dovette vendere la “sua” testata (al Secolo). La guerra mondiale lo chiamò al fronte.
Ma poi riuscì a reimpossessarsi del proprio ruolo di patriarca dello sport e restò sulla breccia fino al 1948, quando le circostanze gli fecero cedere il timone a Vincenzo Torriani, che si considerava suo allievo. Morì nel 1959, a 79 anni. E sino a poco prima aveva pedalato anche sotto la pioggia.