DANIELE PETRONE
Cronaca

Spariti nel Triangolo della Morte. “Traumi che pesano e l’Anpi non ha mai chiesto scusa"

I figli di Ada Bizzarri, che sul Carlino ha lanciato un appello per sapere l’esito del test del Dna sui resti del Cavòn. "Vorremmo ricostruire la memoria storica, sociale". L’86enne cresciuta orfana: "Io ho perdonato"

Ada Bizzarri con la figlia Rita: al centro la famiglia Bocedi prima della tragedia

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Reggio Emilia, 2 settembre 2024 – Non c’è astio politico, non ci interessa. Ma ci manca la verità, per tutti questi anni abbiamo avuto un senso di ingiustizia e una mancanza di rispetto". Con Ada Bizzarri, l’86enne che ieri – tramite il Carlino – ha lanciato un appello alla magistratura per riaccendere la luce sui ‘Morti del Cavòn’ e conoscere i risultati dei test del Dna effettuati nel 2009 dai Ris, ci sono anche i suoi quattro figli Marco, Rita, Antonio e Giovanna. I quali affiancano la mamma nella ricerca dei loro avi, i cui resti sarebbero stati trovati nella fossa comune nel 1992 a Campagnola. Qui sarebbero stati gettati dai partigiani che li avrebbero trucidati nel ‘45, poco dopo la Liberazione, nei giorni delle vendette e dei rastrellamenti a caccia di fascisti o sospetti tali nella terra emiliana del cosiddetto ‘triangolo della morte’.

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Nei dintorni di Campagnola, Poviglio e Castelnovo Sotto scomparvero nel nulla trenta-quaranta persone. Il 7 marzo del ‘91 spuntarono i resti nella cava d’argilla in disuso. Furono ricomposti 19 scheletri, ma solo a nove di questi si riuscì a dare un’identità. Gli altri dieci sono ancora oggi dei ‘desaparecidos’ così come tanti altri (all’appello in totale, secondo alcune ricostruzioni, ne mancherebbero 24). Tra questi, forse, anche Maria Bocedi, all’epoca 27enne e Carlo Antonio, 33 anni, i genitori di Ada che all’età di sei anni rimase orfana insieme al fratello Orazio, poi cresciuti dagli zii. Nel 2009 il sostituto procuratore Maria Rita Pantani, tuttora in carica a Reggio, decise di trasferire i resti a Parma affidandoli ai Ris per analizzarli con le nuove tecniche sofisticate e dare finalmente un nome agli scomparsi. "Mi prelevarono un campione di Dna tramite un tampone. Ma, da allora, nessuno mi ha più fatto sapere nulla. Prima di morire, vorrei sapere la verità...", ha raccontato Ada.

E quei risultati vorrebbero conoscerli anche i suoi figli. "Non vogliamo generalizzare – spiega la figlia Rita –. Ma noi siamo cresciuti senza aver conosciuto i nostri nonni. I traumi delle generazioni precedenti pesano sulle vite di quelle successive. Vogliamo conoscere la verità perché è anche un modo di fare memoria, ricordare, riconoscere. È la nostra identità. Lo psicanalista e saggista Massimo Recalcati diceva che ‘per poter possedere autenticamente ciò che hai ereditato, devi riconquistarlo’. Ecco, la memoria storica, sociale ha senso nella misura in cui corrisponde ad un’elaborazione del passato".

La famiglia poi dice di non aver mai ricevuto "scuse nemmeno simboliche dall’Anpi, ma non cerchiamo vendette. È solo questione di rispetto e di moralità. Così come ci ha fatto male che nel corso del tempo alle commemorazioni (dal 2003, dopo una lunga attesa, c’è una lapide al cimitero di Campagnola dove avviene una cerimonia di ricordo, ndr) non ha mai partecipato il sindaco di turno né l’associazione partigiana. Tant’è che noi abbiamo smesso di andarci, fa troppo male...". A farle eco anche il fratello Marco che lavora come regista negli Stati Uniti: "Noi non ce l’abbiamo con nessuno – spiega –. Io ho lavorat o con Istoreco per realizzare un progetto di documentari per mantenere viva la memoria. Ed è quello che vogliamo anche noi: la verità. Nessuno ha colpa, quelli erano periodi difficili e chi ha sparato ha solo eseguito un ordine dato da deficienti che hanno ammazzato i nostri nonni".

E Ada – cresciuta orfana dagli zii e che ha fatto la maestra lavorando al Corso di Correggio e per mezzo Appennino tra Miscoso, Succiso e Vetto ("Per arrivare cambiavo tre pullman", racconta) – lo ha persino perdonato. "Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono – dice –. Anche se ho ricevuto tante minacce dai partigiani. Mi ricordo che quando andavo a messa per strada mi dicevano: ‘Ecco, lei è la prima che impiccheremo’. Ma io ero solo una bambina. Crescendo però, ero sempre vista come una fascista o la figlia di chi li aiutò. I miei genitori non erano fascisti, ma ricordo che una notte ospitammo dei soldati tedeschi a dormire. Se non lo avessimo fatto, ci avrebbero ucciso tutti… Che dovevano fare i miei? Ma questo non importa ora, vorrei solo sapere, prima di morire, se in quel cavòn c’erano anche i resti di mamma e papà. E riavere i loro ricordi materiali che ho riconosciuto negli scavi, l’anello e le scarpe di mia madre e una matita copiativa di mio padre".