Reggio Emilia, 1 settembre 2024 – "Prima di morire vorrei sapere se tra le ossa ritrovate nel ‘Cavòn’ ci fossero davvero anche i miei genitori. Dove sono i risultati dei test del Dna eseguiti dai Ris nel 2009? Da allora non ho saputo più nulla...". Assomiglia al celebre ‘Chi sa parli’ quello di Ada Bizzarri, oggi 86 anni, che chiede risposte alla magistratura e riaccende la luce sulla tragica storia dei ‘Morti del Cavòn’ di fine aprile 1945, nell’immediato dopoguerra a Campagnola Emilia, nella bassa reggiana. Sono i giorni, poco dopo la Liberazione, delle vendette e dei rastrellamenti dei partigiani a caccia di fascisti o sospetti tali nella terra emiliana del cosiddetto ‘triangolo della morte’ narrato dai saggisti storici Giampaolo Pansa e dai fratelli Pisanò. Nei dintorni del piccolo comune scomparvero nel nulla trenta-quaranta persone molto probabilmente trucidate, ma non tutte ritrovate.
Il 7 marzo del ‘91 – dopo aver rinvenuto una croce (forse posizionata da un contadino testimone dell’orrore) con un messaggio che invitava a scavare in un punto esatto del cosiddetto cavòn, una cava d’argilla – spuntarono resti umani in una fossa comune scavata grazie alla voglia di giustizia dei familiari degli scomparsi tra l’omertà di chi voleva nascondere una verità scomoda per l’Emilia rossa. Furono ricomposti 19 scheletri appartenenti a quei giorni atroci dove imperversava di fatto una guerra civile dopo il conflitto mondiale, ma solo a nove di questi si riuscì a dare un’identità. Gli altri dieci sono ancora oggi dei ‘desaparecidos’ così come tanti altri (all’appello in totale, ne mancherebbero 24). Tra questi, forse, anche Maria Bocedi, all’epoca 27enne, e Carlo Antonio Bizzarri, 33 anni, i genitori di Ada che all’età di sei anni rimase orfana insieme al fratello Orazio, poi cresciuti dagli zii. "Dammi un bacio che non ci vediamo più...", queste le ultime parole che Ada si sentì dire dalla mamma. Non riuscì a salutare invece il papà, prelevato la notte precedente. "Perché? Pensavano fossero dei fascisti. Ma non è così, ricordo solo che una notte ospitammo dei soldati, ma se non l’avessimo fatto ci avrebbero ucciso tutti. Che colpa avevano?".
Ada – maestra in pensione che oggi vive a Sant’Ilario d’Enza – ha una memoria lucidissima: "Da piccola i miei zii mi dicevano che forse erano stati portati in Russia e che un giorno sarebbero tornati a casa. Ma da grande, sentii raccontare in un forno che un signore sapeva chi aveva sparato a papà. L’ho cercato, sapevo dove lavorava. Ma il giorno stesso che stavo per andare da lui, è morto d’infarto… Lo avrei perdonato, ma volevo sapere solo la verità. Si vede che era destino...".
Poi si inizia a scavare da più parti. "Ogni volta mi nascondevo come per fuggire dalla paura che trovassero i resti dei miei genitori, ma per dodici anni ho sognato di scavare con le mani, sono traumi che mi sono portata dietro", dice. E nel ‘91 emersero le ossa dal Cavòn. "Corsi a vedere, trovarono un femore lunghissimo e sono sicuro che fosse di papà, che era alto due metri – dice Ada – Di mamma invece riconobbi il suo golfino grigio, un suo anello e le sue scarpe che indossavo da piccola per giocare. Come mi piacevano… Avrei tanto voluto conservare questi ricordi, ma non essendoci certezza scientifica della loro identità, non hanno potuto darmeli".
Una speranza brilla di nuovo nel 2009 quando il sostituto procuratore Maria Rita Pantani, tuttora in carica a Reggio Emilia, decise di trasferire i resti a Parma affidandoli ai Ris per analizzarli con le nuove tecniche sofisticate e dare finalmente un nome agli scomparsi. "Ero ricoverata in ospedale all’epoca – ricorda Ada – All’improvviso nella mia stanza fecero irruzione i carabinieri, mi spaventai all’inizio. Mi prelevarono un campione di Dna tramite un tampone. Ma da allora, nessuno mi ha più fatto sapere nulla. Prima di morire, vorrei solo sapere la verità...".