Reggio Emilia, 10 febbraio 2023 – Ora l'obiettivo è processare Shabbar Abbas in videoconferenza. O comunque trovare il modo di evitare che la posizione del padre di
Saman rimanga sospesa, ‘congelata’ in attesa della definizione della procedura sull'estradizione che potrebbe essere anche piuttosto lunga. In questo senso va la richiesta che la Procura di Reggio Emilia, guidata dal procuratore Gaetano Calogero Paci, ha rivolto questa mattina alla Corte di Assise, che si esprimerà in merito nella prossima udienza, il 17 febbraio alle ore 9 e nel frattempo ha operato uno stralcio.
Infatti, oggi è stato il giorno della prima udienza davanti alla Corte d'Assise per cinque familiari imputati di sequestro di persona, omicidio e distruzione di cadavere di Saman Abbas: in aula ce n’erano però solo tre (video). Mancavano la madre, ancora latitante, e il padre Shabbar: in carcere in Pakistan ma non ancora estradato. Il presidente della Corte, Cristina Beretti, ha chiesto che l’uomo potesse assistere al processo in videoconferenza dal Pakistan quindi ha stralciato la sua posizione e rinviato il processo al 17 febbraio alle ore 9, in modo che possa essere stabilito il collegamento almeno da remoto.
Se la Corte dovesse accogliere la richiesta della Procura, a quel punto gli atti verrebbero notificati in Pakistan a Shabbar e l'imputato dovrà esprimere o meno il consenso alla partecipazione in video. Se darà l'ok, verrà allestito in breve tempo il collegamento e si riunirà con il processo agli altri quattro imputati. Se dovesse negare il consenso, sarà comunque possibile processarlo in assenza.
La Corte si riserva sulla decisione di ammettere le parti civili
Saman la libertà la pensava davvero. E così si vedeva. E oggi per lei, davanti al tribunale di Reggio dove è iniziato il processo per la morte della ragazza di 18 anni sono sventolati striscioni colorati, e salite le grida delle associazioni Nondasola Reggio e Nonunadimeno Reggio che chiedono “Giustizia per Saman” (video).
Sono 17 le nuove associazioni a difesa delle donne arrivate da tutta Italia che chiedono di costituirsi parte civile. Le difese hanno chiesto di valutarle una per una e sarà il giudice a decidere se e quali accogliere. Dunque la Corte di assise di Reggio Emilia si è riservata la decisione su chi ammettere e chi escludere, rinviando tutto alla prossima udienza, il 17 febbraio.
Barbara Iannuccelli, avvocato dell’associazione Penelope ha scandito: "Il Pakistan deve fare un gesto di grande coscienza, esistono anche i Pakistani in Italia e non possono essere associati a uno Stato che copre degli assassini. Deve esistere un prima e un dopo Saman, per questo dobbiamo raccontare la sua storia all'infinito. Perché magari avremo salvato anche solo una Saman che non conosciamo, che chiederà aiuto leggendo queste narrazioni".
A difesa della costituzione di parte civile dell'associazione Penelope, ha poi aggiunto: "Il caso di Saman va oltre la territorialità, c'è gente che ha preso l'aereo oggi per essere qui. Perché ci sia un prima e un dopo Saman. Perché qualcuna leggendo gli articoli di giornali possa rivedersi in lei e salvarsi la vita. Per questo tutte queste associazioni oggi sono qui".
La difesa dello zio
Le accuse del fratello di Saman "non sono credibili, sono smentite dai filmati di quella notte", ha detto l'avvocato Liborio Cataliotti, difensore di Danish Hasnain, lo zio della ragazza accusato di essere l'esecutore materiale del delitto. In una testimonianza era stato il fratello minorenne della ragazza a dire che è stato lo zio a commettere l'assassinio.
Ma Danish "non è rientrato nella casa di Abbas quella notte - dice Cataliotti - mi sono guardato ore di filmati, esiste l'immagine precisa in cui entra in quell'abitazione ed è della mattina successiva, è facilmente riconoscibile. La versione accusatoria del ragazzo nasce zoppa su un punto focale".
Il ritrovamento del corpo di Saman, a metà novembre, ha ricordato Cataliotti, "è stato reso possibile solo ed esclusivamente per il contributo di Hasnain" e sul rinvenimento sono in corso verifiche tecnico-scientifiche". E questo "è il primo punto fermo del processo". Per l'avvocato, il verbale di Danish "non è utilizzabile nel processo".
Le nozze combinate
Saman è stata ammazzata, dice l’accusa, proprio per essersi rifiutata di sottostare al matrimonio forzato e sposare un cugino più grande di lei, scelto dalla famiglia per lottare per il suo amore adolescente; un amore che aveva le sembianze di Saqib, un ragazzo dagli occhi neri conosciuto sui social e con cui sognava di passare il resto della vita.
Il fratellino di Saman
Il ragazzino, teste chiave dell’inchiesta, sarà anche parte civile nel processo, assieme al fidanzato Saqib (che si è costituito parte civile, ma che questa mattina non era presente in tribunale).
Per Valeria Miari, avvocato reggiano che assiste il fratello minore della ragazza, "questo ragazzo, parlando, ha squarciato il velo dell'omertà e merita rispetto. Non so quanti 16enni avrebbero avuto il coraggio di fare questo passo, che è un passo contro, e il cui prezzo è stato, è e sarà immane". Questo processo, continua Miari, "sarà certamente per lui molto doloroso perché lo porterà a rivivere con maggiore intensità drammi e traumi che ha patito, ma io credo che sarà anche un momento importante positivo, perché rimanda alla possibilità di fare giustizia nell'unica sede del tribunale che è deputata a farlo".
Già invece ammessi come parte civile nell’udienza preliminare il Comune di Novellara (che sta lavorando per la cittadinanza onoraria postuma) e alcune associazioni, come Penelope (che tutela familiari e amici delle persone scomparse), l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane, per prendere le distanze dai matrimoni forzati come pratica religiosa) e l’Unione dei Comuni della Bassa reggiana.
La storia di Saman
La giovane pakistana scompare il 30 aprile 2021 dalle campagne di Novellara e viene trovata sepolta il 18 novembre 2022, a pochi passi da casa sua, sotto metri di terra e detriti; era in un casolare diroccato dove i parenti uomini andavano a bere lontani da occhi indiscreti. Ammazzata, dice l’accusa, proprio per essersi rifiutata di sposare un cugino più grande di lei, scelto dalla famiglia. Ma come è stata uccisa, se e quanto abbia sofferto, lo diranno gli ultimi esami autoptici ancora in corso; sul fatto che quel povero corpo, ancora vestito, appartenga però a Saman non ci sono più dubbi: aveva addosso i suoi jeans, alla caviglia sinistra la catenina che amava portare e che si vede inquadrata nei video di TikTok che rilanciava in rete nel suo periodo di respiro nella comunità bolognese in cui era andata a vivere dopo aver denunciato i genitori; lo confermerebbero alcune imperfezioni uniche delle sue arcate dentali.
Il processo
Alla sbarra, però, in quello che si preannuncia essere uno dei dibattimenti più simbolici e mediatici degli ultimi anni – già divenuto centrale nella lotta alla violenza di genere e nell’emancipazione delle seconde generazioni – stamattina sono mancati due dei cinque imputati, i più importanti. I genitori di Saman, accusati di aver preso parte al delitto. La madre, Nazia, è latitante: scappata dall’Italia con il marito il giorno dopo la sparizione della figlia (il 1° maggio 2021), ha fatto perdere le sue tracce in patria, complice – pare – qualche solida parentela nella polizia locale. Il padre Shabbar, invece, è stato arrestato il 15 novembre scorso nella regione del Punjab su mandato internazionale: da allora, la magistratura e la politica italiane assistono alla controversa sequela di rinvii delle udienze per la sua estradizione.
Saranno presenti invece gli altri tre familiari imputati: lo zio 34enne Danish Hasnain, ritenuto dagli inquirenti l’autore materiale dell’omicidio (difeso dall’avvocato Liborio Cataliotti) e i due cugini Ikram Ijaz, 28 anni (rappresentato dall’avvocatessa Mariagrazia Petrelli) e Nomanhulaq Nomanhulaq, 35 anni (con il legale Luigi Scarcella).
I tre arresti: tutti fuggiti all’estero
Tutti e tre detenuti, dopo essere stati arrestati nei loro tentativi di fuga in Europa, si erano trincerati nel più profondo silenzio, fino all’arresto di Shabbar in Pakistan. Pochi giorni dopo lo zio Danish ha iniziato la sua collaborazione con gli investigatori, sfociata nelle decisive informazioni per il ritrovamento del cadavere e nella sua versione dei fatti: sarebbero stati Ijaz e Nomanhulaq a chiamarlo di notte per accompagnarli a nascondere il corpo, dicendogli che a uccidere Saman era stata la madre.
Danish è stato però accusato dal fratello della ragazza di essere l’esecutore materiale dell’omicidio, avvenuto per strangolamento: sarebbe stato lui stesso a riferirlo al ragazzo. Interrogato, lo zio ha sempre negato, dichiarando di essere stato incastrato. Anche il padre Shabbar, a più riprese, ha tentato di confondere ufficialmente le acque ripetendo che "Saman è ancora viva". Ma in un’intercettazione, un mese dopo il suo rientro in Pakistan, diceva di aver ucciso la figlia "per l’onore e la dignità". "Io e tuo padre siamo morti lì", le parole di Nazia in un’altra telefonata, intercettata mentre chiamava, anche in questo caso dal Pakistan, l’altro figlio, rimasto in Italia.