Reggio Emilia, 28 dicembre 2018 - Contro di loro gli imputati di ‘Aemilia’ hanno lanciato invettive. I loro avvocati, invece, più pacatamente ma non con minore forza, hanno cercato di smontarne l’attendibilità delle rivelazioni, riconosciuta loro invece dai pm della Dda Beatrice Ronchi e Marco Mescolini.
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L’ultimo anatema, risale a pochi giorni fa e viene dal boss della ‘ndrangheta in Emilia, Nicolino Grande Aracri che, durante il processo ‘Pesci’ a Brescia, ha rimarcato come abbiano raccontato diverse bugie: una semplice autodifesa di chi dovrà passare molti anni in cella o un inquietante messaggio? Di certo gli imputati, poi condannati, di ‘Aemilia’, se la sono presa più volte, per così dire, con i collaboratori di giustizia.
Da Antonio Valerio, mente storica e personalità vulcanica - che ha raccontato scenari degli omicidi Ruggiero e Vasapollo, oltre ad assetti di potere nel clan e lotte per la successione al vertice -, a Salvatore Muto, braccio destro di Francesco Lamanna, dai racconti chiari e pacati, accusatore di Giuseppe Iaquinta, padre dell’ex calciatore Vincenzo, passando per Giuseppe Pino Giglio, mente economica del sistema, i pentiti che hanno sfilato in aula, hanno paura. Oltre a loro, sono stati sentiti anche uno storico collaboratore come Salvatore Angelo Cortese, oltre a Paolo Signifredi, considerato il contabile del clan Grande Aracri, aggredito mentre era in località protetta, e Nicola Femia, condannato all’esito dell’inchiesta ‘Black Monkey’ sulle slot taroccate.
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A rinfocolare le loro paure è ora l’omicidio a Pesaro di Marcello Bruzzese (FOTO - VIDEO), fratello di un collaboratore di giustizia, maturato come vendetta di ‘ndrangheta. L’avvocato Luigi Li Gotti, che in passato seguì pure i pentiti Tommaso Buscetta, Giovanni Brusca e Francesco Marino Mannoia, assiste Giglio, da un anno in località segreta: «Lui sta seguendo le regole in modo molto rigido, evitando ogni contatto con i conoscenti. Negli Usa, il referente di Buscetta abitava a 400 chilometri da lui. Guardare a vista un pentito è un’imprudenza. Per uno era stata predisposta un’auto per la sorveglianza ravvicinata, ma nella località ci si accorse della sua presenza». Cosa cambiare?
«Bisogna sbloccare il rilascio dell’identità di copertura, al momento chiesta da alcuni e non ottenuta neppure in via provvisoria. Ma dev’essere la politica, non il Servizio centrale operativo, a intervenire. Attraverso un altro nome, anche dopo un piccolo incidente stradale, ci si rifà al certificato penale che riporta i precedenti. Così tutte le parti vengono a sapere di chi si tratta. Serve una modifica. E molti pentiti cinesi e nigeriani ospiti con un permesso umanitario ora sono diventati clandestini».
L’avvocato Adriana Fiormonti segue il pentito Muto. Non vuole parlare di paura. «Muto ha fatto una scelta. Lo ha ripetuto anche a Brescia. La sua decisione rimane confermata». Anche se non si esime dal dire: «Dopo aver fatto una scelta di vita, sentirsi esposti ha un effetto deflagrante».