"Non ho ancora detto a mia madre del riconoscimento di suo padre. Sta poco bene e non vorrei fosse sopraffatta dall’emozione. Per tutta la vita ha aspettato questo momento, glielo dirò nei prossimi giorni". Chi parla è Marco Caseli, nipote di Aristide Ganassi, uno degli ultimi riconosciuti grazie ai recenti esami dei Ris di Parma sulle ossa ritrovate nel ’cavòn’ di Campagnola, in pieno ’Triangolo della Morte’, dove decine di persone vennero trucidate dai partigiani comunisti sul finire dell’aprile ’45 a Liberazione già avvenuta.
Aristide era un medico. "Era a capo dell’ospedale di Castelnovo Sotto – racconta Caseli, che lavora come responsabile commerciale nel mondo delle telecomunicazioni e che oggi vive a Roma – Lui curava tutti, partigiani e tedeschi, senza distinzioni. Sì,aveva la tessera del partito fascista, ma non militava. Ma all’epoca eri costretto a farlo per lavorare".
Marco è figlio di Paola Ganassi che oggi ha 90 anni. Ne aveva dieci quando gli strapparono le padre. Lei e il fratello Ferruccio (scomparso nel 2020) rimasero orfani poco dopo per la morte della mamma Caterina Sacchi rimasta vedova. "Furono costretti a migrare a Parma, perché a Castelnovo Sotto non potevano stare essendo costantemente sotto minaccia – continua Marco – Mia madre ha fatto l’insegnante, si svegliava alle 4 del mattino per andare a scuola a Cassio, una frazione di Terenzo, nell’Appennino parmense. L’uccisione di mio nonno tagliò le gambe alla famiglia, anche economicamente. Non avendo trovato il corpo, non poterono ricevere la pensione e neppure sbloccare i soldi in banca. Hanno dovuto ripartire da zero".
Paola Ganassi aveva perso completamente la speranza per ritrovare il padre. "Dopo che a mio zio venne prelevato il Dna dopo gli scavi che svelarono la fossa, non abbiamo saputo più nulla fino alla settimana scorsa – conclude Marco con amarezza – Ci sentiamo in credito con la giustizia. Per decenni nessuno ha parlato, c’è stata un’omertà incredibile degna della mafia siciliana. Capisco le tensioni politiche che si sarebbero potute generare, ma non si possono tacere dei crimini del genere. Anche perché la guerra era finita".
Daniele Petrone