Stefania Azzali nel 2017 ha fondato ’Casa Gioia’, una struttura dedicata alle famiglie che affrontano quotidianamente l’autismo.
Azzali, siamo di fronte a un aumento costante delle diagnosi di autismo nel reggiano. Perchè così tanti casi?
"Paradossalmente perché a Reggio c’è maggiore sensibilità e formazione sul tema. Non per caso la nostra Ausl è hub regionale per i casi di autismo. Abbiamo un maggior numero di professionisti competenti e diagnosi più veloci ed efficaci, quindi anche più numerose. Il problema nasce dopo: quando si devono prendere in carico i casi, e si verificano situazioni come quelle segnalate da Sara Balotta".
Dove si interrompe quello che, appare come un percorso virtuoso?
"Nel momento in cui non si riesce a dare risposte terapeutiche adeguate. L’esempio è quello della terapia Aba (Applied Behavior Analysis, ndr) che è l’unica al momento certificata a livello internazionale per l’autismo. Le linee guida dell’Ausl dicono che per essere efficace deve essere praticata minimo tra le 6 e le 10 ore a settimana. Ma Centro Autismo e Neuropsichiatria non ricevono sufficienti risorse".
Per mancanza di fondi?
"No, i fondi ci sono. La questione è come si decide di spenderli. Si potrebbero destinare in via primaria a sostenere le famiglie che si affidano a terapisti privati o per gli educatori di sostegno in estate, ma vengono fatte altre scelte. So che la coperta è corta, ma questo è".
È sempre stato così?
"No, quando Matteo, mio figlio, era piccolo aveva il centro estivo interamente pagato dall’ente locale, come pure l’educatore. Ma su questo punto il Comune potrebbe farci qualcosa".
In che modo?
"Poiché si sa quanti sono, potenzialmente, i bambini autistici che potrebbero frequentare i centri estivi, si prepara un budget e si mettono a preventivo gli investimenti necessari. Naturalmente bisogna prima decidere di volerlo fare".
Per una famiglia che ha un figlio autistico come è la situazione generale nel reggiano?
"Domanda complessa. Io stessa, guardando alla mia vicenda personale, ho vissuto situazioni di grande inclusività e altrettanta esclusione. Devo dire che qui c’è sicuramente maggiore consapevolezza per la presenza di famiglie e associazioni, ma anche operatori sanitari ed educatori competenti e sensibili. Come in tutti gli ambiti, contano molto le singole persone. L’osservatorio di ’Casa Gioia’ mi permette di notare che ci sono ancora famiglie lasciate molto sole e che le difficoltà economiche pesano".
Se il settore pubblico non destina risorse però devono rivolgersi a soggetti privati. Che hanno un costo.
"È un mio cruccio. Io devo indossare due giacche: quella di mamma e quella di imprenditrice. Con la prima accoglierei il maggior numero di bambini possibile, con la seconda devo ragionare pensando che sto offrendo aiuto a chi ne ha bisogno, ma devo farlo con qualità. Ecco perchè chiediamo quote calmierate, promuovendo raccolte fondi per trovare la quadra. Spesso le famiglie sono monoreddito, perché uno dei due genitori, solitamente la madre, si deve occupare a tempo pieno del figlio, e non può lavorare".
Una cosa con cui, in passato, ha fatto i conti anche lei…
"In principio è stato particolarmente difficile. A inizio 2000 dell’autismo si sapeva poco e ancora meno veniva diagnosticato: nel caso di mio figlio come sintomo di un’altra patologia, la Ring-14. Successivamente si è accresciuta la consapevolezza, ma le risorse non si sono adeguate al costante incremento dei casi".
Per questo ha creato ’Casa Gioia’?
"Nel 2002 ho lasciato il lavoro nel settore turismo per dedicarmi al no-profit. L’idea iniziale era quella di aiutare Matteo ad avere una qualità di vita migliore; successivamente ho pensato si potesse dare aiuto anche ad altri che si trovavano nella stessa situazione, lavorando in particolare sull’autismo".
Gabriele Gallo