LARA MARIA FERRARI
Cronaca

Aemilia, sei anni fa la sentenza. Il giudice Caruso: "Anticorpi? Facciamoli funzionare adesso"

Il presidente del collegio del maxi-processo: "Vigilanza rigorosa contro la rimozione" . Il procuratore capo Paci: " Non ci sono più alibi per nessuno, quella non è stata una parentesi".

Aemilia, sei anni fa la sentenza. Il giudice Caruso: "Anticorpi?. Facciamoli funzionare adesso"

Il presidente del collegio del maxi-processo: "Vigilanza rigorosa contro la rimozione" . Il procuratore capo Paci: " Non ci sono più alibi per nessuno, quella non è stata una parentesi".

Presidente del collegio giudicante del processo Aemilia in primo grado e, all’epoca, del tribunale di Reggio, il giudice Francesco Maria Caruso ieri era in città, ospite d’onore della prima Consulta per la Legalità in epoca Massari. Il magistrato è stato protagonista di un esteso intervento in cui ha riassunto significato, capacità e dinamiche con cui la mafia si è infiltrata a ogni livello nel tessuto sociale reggiano.

"Vorrei dire il senso della mia presenza qui, oggi, a sei anni dall’esperienza dibattimentale del processo. Che cosa è stata Aemilia? La nostra sentenza è passata in giudicato il 7 maggio 2022 e le due sentenze sono state integralmente confermate dalla Corte di Cassazione. I fatti acclarati in quelle vicende sono definitivi, storici, oltre che processuali e giudiziali, quindi la Cassazione ha affermato l’esistenza in vaste aree dell’Emilia-Romagna, con epicentro a Reggio, di un’associazione di stampo mafioso che ha operato fra il 2004 e il 2015 in territorio emiliano, con collegamenti fuori regione".

Ne sono emersi i capi, spiega Caruso, i loro territori di insediamento e la possibilità di avvalersi di un nutrito gruppo di partecipi. Ed è qui che il magistrato tocca uno dei punti nevralgici del discorso, quando rammenta che "è stato accertato che i partecipanti all’associazione si erano uniti a una schiera di soggetti disponibili, non mafiosi, ma della società civile, disposti a lavorare con il sistema mafioso, disponibili ad assecondare operazioni elusive mediante un’intestazione fittizia di quote societarie e beni immobili, con la titolarità fittizia di imprese attraverso il coinvolgimento di un numero significativo di colletti bianchi, professionisti, imprenditori, affaristi, tra cui rappresentanti delle forze dell’ordine, tutti soggetti il cui operare era strumentale all’associazione", ricorda Caruso, che rincara: "Di fatto l’associazione reggiana ha trasformato gli estorti in concorrenti dell’associazione mafiosa".

Erano 220 gli imputati complessivi, 71 giudicati con rito abbreviato e 149 in ordinario, ricostruisce Caruso. Numeri mostruosi che danno il senso dell’intrico della trama, ma che hanno reso concreto il pericolo della dispersione del senso della vicenda e della sua visione unitaria, per la vasta rete di relazioni intessute fra gli imputati, con il serio rischio che fossero rimessi in libertà per decorrenza termini, il che, sottolinea il magistrato, "non è cosa da trascurare, perché in caso di scarcerazione l’organizzazione avrebbe continuato a essere operativa e non ci troveremmo nelle condizioni in cui ci troviamo ora".

Ma com’è stato possibile – un punto su cui si dovrà lavorare - che un territorio al vertice delle virtù civiche nazionali, con una storia gloriosa – epopea famiglia Cervi, consolidato buon governo, movimento Luglio 1960, servizi sociali di avanguardia, asili nido e scuole materne – fiore all’occhiello di una comunità considerata antitetica al modello della sottocultura mafiosa- abbia subito il grande trauma, lo schiaffo impietoso della storia, la mafia a Reggio Emilia?

"È una frase del libro ‘Rosso mafia’ di Dalla Chiesa-Cabras – ricorda Caruso –. Gli anticorpi che non hanno funzionato in passato possono essere recuperati se si fa tesoro dell’esperienza e con una vigilanza rigorosa contro ogni processo di rimozione".

Conclusione della prima seduta della Consulta affidata al procuratore della Repubblica Calogero Paci, che ha parlato di "convergenza di tutte le realtà sociali e istituzionali presenti sul territorio quale presupposto fondamentale per riattivare uno strumento di indagine importante – attacca Paci – che vorrei sintetizzare partendo dal senso profondo della prolusione del presidente Caruso, che io racchiuderei in una sola parola: alibi. Non ci sono più alibi per nessuno. Ciò che è successo e come è successo, i fatti emersi e acclarati e i risultati che ha conseguito evidenziano come non sia possibile definirla una parentesi, in una storia certamente gloriosa e di altissimo profilo civico, repubblicano e di benessere economico e sociale. Ma è stata una concausa di un meccanismo evolutivo contemporaneo che il capitalismo odierno ha assecondato e di cui ha bisogno, che è quello di disporre anche di serbatoi di mercato illegali, appaltati alla criminalità organizzata".