Reggio Emilia, 28 novembre 2024 – Assecondando una ricerca artistica costante, Davide Benati (Reggio Emilia, 1949) continua a esplorare, oggi, il suo linguaggio con rinnovato slancio e ne darà testimonianza nella mostra 'Encantadas' a Palazzo da Mosto, dal 7 dicembre 2024 al 2 marzo 2025, attraverso una selezione di opere storiche provenienti dagli anni Ottanta e numerosi inediti. Lo abbiamo incontrato.
Che cosa rappresenta per lei questa mostra, promossa dalla Fondazione Palazzo Magnani,a questo punto della sua carriera e della sua vita?
Quando me l'hanno proposta, ho immaginato subito che non dovesse essere una retrospettiva, scandita per tempi. Ho invece voluto scegliere opere inedite per il pubblico o esposte tanti anni fa in gallerie o musei e poi più viste. Dunque ho messo insieme opere che avessero costituito dei precedenti.
Cosa intende?
Io sono uno che lavora tutti i giorni. Ho tempi tecnici, in accordo con spazi espositivi nei quali sarà un domani allestita una mia personale, che inizio a preparare. Capita però, nel tempo, dedicandosi a un progetto, che esca qualcosa di inatteso, di nuovo, di non previsto. E allora persino certe opere recenti improvvisamente sembrano invecchiare e io sono spinto verso una novità, da un punto di vista linguistico, che mi induce a studiarla, ingrandirla... Sentendo che è il momento di andarla a capire. Ecco, molte delle opere che esporrò a Palazzo da Mosto fanno parte di queste 'dimenticanze'. Per esempio, ho chiesto al Museo del Novecento di Milano un'opera che mi è molto cara, 'Avvoltoio degli Agnelli'.
Che ricordo le affiora?
Venne esposta al PAC, Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano, nel 1985, il giorno della grande nevicata. Era all'interno di una mostra collettiva di giovani dal titolo 'Nuovi Argomenti', a cura di Flaminio Gualdoni, e tutti pensammo preoccupatissimi “non verrà nessuno”. Ma nel pomeriggio smise di nevicare dopo che per le strade si erano accumulati 70 cm di neve e io ricordo che probabilmente proprio per questo silenzio magico che aveva coperto Milano, quella sera la gente uscì e il padiglione d'arte si gremì di persone. Tutt'intorno era gioco e pallate di neve. Poi quell'opera costituiva un consolidamento delle mie scoperte sul doppio, del mio lavoro nato nel 1982 a seguito dei due grandi dittici che esposi alla Biennale di Venezia, 'Doppio Sogno' e 'Baja California'. E c'è il discorso dello spazio.
Che luogo è Palazzo da Mosto?
Magnifico, ma complesso nell'approccio espositivo. Costringe l'artista a giocare con quanto gli spazi gli suggeriscono o lo condizionano, nella scelta delle opere. Uno spazio antico ha suoni e percorsi completamente diversi rispetto al contemporaneo, che presuppongono un reciproco adattamento.
Che cosa è cambiato dello spirito con cui ha cominciato da ragazzo a incamminarsi nell'arte rispetto a ora?
Si hanno strane idee da ragazzi. Papà mi diceva “è un mestiere da poveri”, perché il pensiero va all'arte dell'Ottocento, sempre. Accanto alla magnificenza che circonda quell'epoca, sia detto però che c'è anche molta retorica. In realtà è un lavoro che comincia tutte le mattine. Una prima consapevolezza la ebbi nel '71, all'epoca della tesi di Storia dell'Arte con il prof. Guido Ballo. Scelsi la Pop Art inglese di Peter Blake, Richard Hamilton, David Hockney. Andai a Zurigo dove intervistai Peter Phillips, ebbi l'opportunità di vedere un artista internazionale all'opera: 32 anni, studio magnifico pieno di attrezzature sconosciute, vestito di serpente, sembrava un chitarrista dei Rolling Stones. Sentì una vicinanza... Che distanza rispetto a Brera e alla riverenza nei confronti dei suoi maestri, penso a Francesco Messina. Cominciai a sognare.
Sogni che poggiavano su una base concreta?
Ebbi la fortuna di ottenere un incarico al liceo artistico di Brera, nel '74, quindi sì. Potevo stare a Milano e gestire il mio percorso nell'arte senza legarlo subito all'idea di mercato, che era il rischio insito nel rapporto con una galleria. Questa professione ha quattro protagonisti: l'artista, il gallerista o mercante, figure univoche o separate, il collezionista che garantisce la sopravvivenza e il critico d'arte. Ora ci sono i curatori. Dei manager. Un tempo accadeva che un artista, Modigliani, ritraesse un amico poeta e mercante, Zborowski; a Parigi era Baudelaire a recensire gli Impressionisti. Io ho avuto le parole di Tabucchi, Celati, Ghirri. Si incontrano galleristi molto vicini culturalmente agli artisti, e sono quelli che non diventano ricchi. Però hanno intuizioni che i mercanti non hanno.
“La presenza dell'artista è tanto più forte quanto più è mascherata dall'apparente distacco" - Walter Guadagnini. Che ne pensa?
Walter sa cosa dice, mi conosce, vero è però che il mio lavoro sembra molto sulla superficie. In realtà c'è un controllo apparentemente freddo perché tutto è disteso con un criterio, che tiene conto di questa sovrapposizione continua, controllata delle forme. Che sembrano della natura, vengono da lì, ma io le prosciugo. Non c'è niente di naturalistico nel mio processo. Il criterio col quale ho cominciato è quello degli erbari. Non la natura, ma il suo ricordo. Ho già filtrato la fonte, trasformandola in reperto. Non c'è emozione diretta, ma depositata nel tempo.
La scelta della forma del trittico è essa stessa una continuità di ispirazione oppure possiede un altro significato?
In realtà nasce nel momento in cui ho deciso che un'immagine possa avere più di una lettura. Picasso quando inventa il cubismo si pone il problema di avere nello stesso spazio due, tre molteplici punti di vista. All'interno di un quadro di Picasso si hanno molteplici angolazioni di sguardo. Io ho cercato qualcosa di più teatrale. Non a caso li ho intitolati ‘Conversazioni’. Sta all'osservatore giocare con questi personaggi. Nei più noti dittici o trittici al centro c'è un seme che sboccia. A sinistra e a destra, stadi diversi di apertura di questa forma. È come un crescere all'interno di tre stazioni. Questo il senso di teatro dei trittici.
I taccuini di viaggio si riferiscono a itinerari artistici o materiali?
Tutti e due. Ho tentato di fare un po' il Grand Tour come Goethe, i francesi. Dürer fece taccuini magnifici quando attraversò le Alpi. A Katmandu mi mettevo nella piazza della città antica a fare qualche acquerello dal vero. Circondato dai bambini incuriositi, ero diventato un giocattolo strano per loro. Nella camera del lodge ripensavo gli acquerelli a memoria. Me li sono ricordati, aiutandomi con fotografie e disegni. Misurarsi con il ricordo trovo sia una pratica molto significativa.