
Rimpallo di accuse tra i consulenti: per quelli dei dirigenti regionali da parte degli esecutori vi furono "sciatteria e pratiche inimmaginabili".
In origine, Regione e costruttore della centrale idroelettrica erano dalla stessa parte: la prima aveva autorizzato non uno, ma due impianti a Ravenna, a San Bartolo e Mensa Matellica, il secondo – più ditte riconducibili allo stesso imprenditore – le aveva realizzate e gestite. Entrambi i progetti, però, sono finiti sotto accusa per disastro ambientale e, nel caso di San Bartolo, il 25 ottobre 2018, ci scappò anche la morte di un tecnico regionale della Protezione civile, Danilo Zavatta. Con l’avanzare del processo, Regione e ditte si trovano ora su fronti opposti. Il nodo centrale del dibattimento sembra essere il cosiddetto “pozzettone”, un tubo-camicia costruito per facilitare il drenaggio del canale e permettere i lavori all’asciutto. Secondo i consulenti del progettista Go4it, il pozzettone non ebbe alcun ruolo nel crollo: per loro, il vero problema fu l’abbassamento repentino del livello dell’acqua, che avrebbe aggravato una situazione di instabilità preesistente. Di segno opposto è la versione fornita dai consulenti dei quattro dirigenti regionali oggi imputati, che vedono proprio nel pozzettone la causa principale del disastro. A loro avviso, questa struttura avrebbe innescato un fenomeno di sifonamento, portando al cedimento della spalla sinistra della passerella tra la chiusa e l’argine del Ronco. In questa prospettiva, il crollo non sarebbe legato a un difetto del progetto autorizzato dalla Regione, bensì a gravi errori commessi in fase di esecuzione dei lavori.
Gli esperti parlano di "pratiche spicciole inimmaginabili" e di "errori occulti", rimasti nascosti persino alla direzione del cantiere, e di "un ambito gestionale francamente sciatto". Tra i punti critici segnalati c’è la rimozione delle palancole – barriere metalliche necessarie per isolare il cantiere – senza alcuna cautela. Questo avrebbe lasciato sette fori da 12 cm di diametro ciascuno, permettendo all’acqua di infiltrarsi nel terreno. Inoltre, le riparazioni eseguite dall’impresa sarebbero state inadeguate: invece di chiudere definitivamente il pozzettone, l’esecutore si sarebbe limitato a tapparlo con calcestruzzo, lasciando però intatti i fori nel canale. Il 25 ottobre 2018, giorno del disastro, il canale venne nuovamente svuotato. Secondo i consulenti regionali, la Gipco, in quanto gestore dell’impianto, avrebbe dovuto considerare i rischi legati a questa operazione, soprattutto perché già il 4 settembre si erano verificati segnali di instabilità e vi era stato un fuggi fuggi degli operai. Anche i tecnici della ditta Enser, intervenuti per la messa in sicurezza dopo il crollo, hanno confermato che l’acqua ha seguito percorsi anomali nel terreno proprio a causa dei fori nel canale. Questo rafforza la tesi della Regione, che attribuisce il disastro agli errori nella gestione del cantiere piuttosto che al progetto iniziale. Resta ora da stabilire se la tragedia sia stata causata da un difetto di progettazione, da un’esecuzione scorretta o da entrambi i fattori. Non è escluso che il giudice Cosimo Pedullà disponga una perizia indipendente, il che comporterebbe un ulteriore allungamento dei tempi del processo.
Lorenzo Priviato