REDAZIONE RAVENNA

Montevecchi, una vita di scavi e studi: "Così portammo alla luce i mosaici della Domus dei Tappeti di Pietra"

L’archeologa ravennate è stata protagonista delle scoperte più eccezionali degli ultimi quarant’anni. Ha anche avuto un ruolo di primo piano negli allestimenti di musei come quello di Classe.

Montevecchi, una vita di scavi e studi: "Così portammo alla luce i mosaici della Domus dei Tappeti di Pietra"

Montevecchi, una vita di scavi e studi: "Così portammo alla luce i mosaici della Domus dei Tappeti di Pietra"

Una passione per l’archeologia che le veniva da lontano, da quando a quattro anni il nonno la portava a guardare gli scavi a Classe, e quando si è trattato di scegliere la facoltà non ha esitato. E’ nata così la vita da archeologa di Giovanna Montevecchi, protagonista sia delle scoperte più eccezionali degli ultimi quarant’anni, dai mosaici della Domus dei Tappeti di Pietra alla nave del parco di Teodorico, sia negli allestimenti di una lunga serie di musei archeologici, non ultimo quello di Classe. Autrice di oltre un centinaio fra saggi, articoli scientifici e conferenze, Giovanna Montevecchi ha anche preparato le carte archeologiche di molti comuni, indispensabili per la conoscenza del sottosuolo in vista di ogni tipo di lavoro. Forte della sua lunga esperienza lancia un grido d’allarme: "Per i giovani che escono dall’università con la passione per gli scavi, non c’è certezza di un futuro di lavoro".

Quando lei si è laureata, un corso universitario in archeologia non c’era…è così?

"Infatti io sono laureata in lettere e filosofia indirizzo storia antica. Era questo all’epoca, i primi anni 80, il percorso. E non si faceva esperienza sul campo, a meno di iniziative personali. Oggi l’università offre invece uno sbocco diretto attraverso Conservazione dei beni culturali, ma il problema è che così si illudono i giovani…".

Nel senso?

"Che quando un ragazzo si laurea e ha la passione dell’archeologia, se non ha fatto un corso di restauro non trova lavoro, deve arrabattarsi. L’ultimo concorso per 500 posti nelle Soprintendenze risale al 2016. Pensi che come archeologi non abbiamo neppure un albo professionale e lavoriamo da autonomi, a volte in cooperativa.".

Fare l’archeologo è più di un lavoro, è uno studio continuo, vedo dal suo curriculum che lei ha all’attivo ben oltre un centinaio fra articoli, conferenze, in Italia e all’estero, carte archeologiche, pubblicazioni di stretto rigore scientifico…

"L’archeologo lavora sempre su due fronti, quello degli scavi, nella terra, nel fango, io ne ho fatti a decine, anche come capo cantiere, in tutta la regione e in Turchia e quello successivo, conseguente, dello studio e quindi della trasmissione delle conoscenze".

Com’è sorta la passione per l’archeologia? Mi parli della sua famiglia...

"Il babbo, Italo, era venuto a Ravenna nel dopoguerra da Santarcangelo e dopo aver fatto il camionista divenne autista della Cassa di Risparmio; la mamma, che ha appena compiuto novant’anni, si chiama Giuseppina, anche lei è arrivata qui con i genitori, da Mercato Saraceno. E fu proprio nonno Giuseppe, che faceva l’operaio, a portarmi spesso a Classe dove il Gruppo ravennate archeologico con l’ingegnere Roncuzzi faceva i primi scavi. Forse era il ‘65, ero piccola, quattro anni o poco più. Il nonno era fra gli operai che scavavano! Devo a lui la passione…".

Iniziava l’avventura di Classe, la ricerca del porto e della città, grande merito di Arnaldo Roncuzzi, di Cortesi e di Giovanna Bermond Montanari della Sovrintendenza archeologica…

"Un’avventura avviata all’inizio degli anni Sessanta grazie alla metodologia dell’aerofotografia messa a punto da Roncuzzi; all’epoca lui aveva già una idea precisa di cosa ci fosse sotto terra, delineò anche il tracciato delle mura tanto che nel 2003, in area privata, abbiamo scoperto uno dei torrioni. E non dimentichiamo l’industriale alfonsinese Marino Marini, a cui si deve anche la scoperta di Spina. In mezzo secolo di scavi, che dal 2000 sono in mano all’Università, molto è emerso, roba del V e VI secolo, ma tanto, tanto di più è ancora sepolto, anche sotto l’abitato di Ponte Nuovo…Per non parlare dell’epoca romana di cui non molto si sa: dov’era ad esempio il porto di Augusto? Ci sono solo ipotesi…".

Quando ha cominciato ad operare sul campo?

"Nel 1982, ero ancora all’università. Mi feci conoscere da Maria Grazia Maioli, della Soprintendenza, e partecipai agli scavi al podere Chiavichetta, a Classe, l’area che nascondeva i magazzini portuali e il canale secondario. Dopo la laurea, nel 1986, cui è seguito il dottorato, cominciai a lavorare come free lance e il primo incarico fu lo studio della centuriazione romana nel Cesenate dove c’erano i lavori per il Cer".

Lei ha avuto anche un importante ruolo nella scoperta dei mosaici alla Domus dei Tappeti di Pietra…

"Nel ‘93. Ero in Soprintendenza con la Maioli e arrivò una telefonata che parlava di camion pieni di macerie in via D’Azeglio. Maria Grazia mi mandò subito a controllare, riuscii a entrare nel cantiere con uno stratagemma e vidi uno dei grandi mosaici, in parte rovinato dalle benne. Corsi in Soprintendenza e Maria Grazia fece bloccare tutto. Ho lavorato per un anno nel cantiere, ma non abbiamo potuto scavare per arrivare al periodo augusteo, c’erano rischi di crolli. Ci siamo fermati al VI secolo. A Ravenna, l’interesse archeologico e quindi lo studio sono concentrati soprattutto sul periodo bizantino mentre sull’età romana c’è ancora tanto da scoprire…".

Lei è stata responsabile di scavi un po’ in tutta la regione e ancor più in Romagna e dalle sue pubblicazioni scientifiche emerge un notevole interesse per l’archeologia funeraria…

"L’area delle necropoli va dalla zona nord di Ravenna fino a Fosso Ghiaia e io ho scavato in molti siti, tanto per citare due casi, in viale Europa nel sottopasso ferroviario e a Classe, qui assieme a colleghi europei. Dalle tombe si riscostruisce la vita delle persone. A Classe ad esempio le stele funerarie riportano oltre ai nomi, anche il mestiere, marinaio, costruttore di navi etc così si può delineare la composizione sociale di quell’insediamento che contava migliaia di persone. Purtroppo lo studio delle stele è fermo al ‘68…sui rinvenimenti successivi nulla è stato fatto".

Oltre agli scavi lei si è occupata, fra tanto altro, anche di organizzazione dei musei e di carte archeologiche preventive…

"Partiamo dalle ‘carte delle potenzialità archeologiche’, fondamentali per l’organizzazione dei lavori, pubblici e privati, sui territori: la prima città a dotarsene fu Faenza nel ‘93. La redassi io e dopo l’ho fatto per tanti comuni. E’ uno strumento fondamentale perché così in ogni cantiere che si apre si fanno sondaggi. A Ravenna li ho fatti, tanto per dire, per il ponte Teodorico, per il futuro sottopasso di via Canale Molinetto e quello pedonale di via Darsena. E andando ai musei ho fatto da consulente per i mosaici a Tamo, Classe, Bagnara, Cotignola, Russi, Cesena e tante altre località. Da ultimo, dal 2021, come collaboratore-funzionario della Soprintendenza mi sono occupata di tutti i depositi di materiale archeologico della Romagna".

A proposito del materiale, i magazzini sono pieni. Perché non è esposto?

"Premesso che compito della Soprintendenza è la tutela dei reperti archeologici, il primo punto è che si espone una selezione del materiale. Il resto è a disposizione degli studiosi…e poi accade anche che ci siano città che non hanno musei archeologici, come ad esempio Faenza e il materiale più importante ha trovato posto altrove, come i pavimenti in mosaico: prima a Tamo poi a Classe".

Carlo Raggi