La doccia gelata dopo l’illusione di aver ottenuto giustizia e un risarcimento per i torti subiti sul luogo di lavoro. La corte d’appello ha infatti ribaltato la sentenza di primo grado con cui il caporeparto e tre vertici della Lidl erano stati condannati – il primo per lesioni da cui era derivata una malattia professionale, i secondi per non avere impedito l’evento – ai danni di una magazziniera del supermercato di Massa Lombarda. I giudici di Bologna li hanno assolti tutti "perché il fatto non sussiste", entrando nel merito delle vicenda mentre la Procura generale si era limitata a chiedere l’assoluzione per prescrizione dei termini di reato. Annullati, di conseguenza, anche la condanna in solido della Lidl, come responsabile civile, e i 30mila euro di provvisionale riconosciuti alla dipendente, parte civile con la tutela dell’avvocato Alfonso Gaudenzi che ora si riserva il ricorso per Cassazione. I giudici si sono presi 90 giorni per depositare la nuova sentenza.
La storia di Sara Silvestrini, oggi 44enne, e della sua compagna Federica Chiarentini, che di quella vicenda aveva patito le conseguenze, aveva fatto il giro di tutt’Italia. Angherie, battute sulla sua omosessualità, massacrati turni di notte tra camionisti molesti, chiamate sul telefono privato e fuori dall’orario di lavoro, fino al licenziamento: questo era in contesto uscito dal processo di primo grado celebrato a Ravenna, dove più volte la Procura aveva utilizzato il termine mobbing. Il caporeparto era stato condannato a 3 mesi di reclusione, a una multa di 500 euro i tre dirigenti Lidl. In appello la Lidl ha fatto valere la propria linea: anzitutto l’assenza di nesso causale tra le condotte del caporeparto e la malattia professionale derivata, sulla quale erano peraltro emerse più diagnosi e tra loro divergenti. Riguardo ai tre dirigenti, non avrebbero avuto alcuna posizione dominante. Trattandosi di lesioni, inoltre, veniva contestato un difetto di querela. La linea difensiva aveva puntato a dimostrare, inoltre, che la donna era già stata risarcita dopo il licenziamento e che il rischio di lavoro da stressa e stato mappato da Lidl e tenuto sotto controllo. Ora, l’assoluzione piena fa venire meno l’onere risarcitorio e complica i piani della coppia per l’azione civile. Le accuse principali ricadevano sul caporeparto il quale, a dispetto di un certificato medico che la dichiarava inabile a sollevare pesi e sebbene il contratto non prevedesse il notturno, l’avrebbe fatta lavorare soprattutto la notte e in una settimana.
"Lavoravo alla Lidl da dieci anni – raccontava Sara – e fui licenziata nel luglio 2015, per giusta causa: ciò vuol dire che il dipendente ha fatto qualcosa di grave, loro mi contestavano di avere perso la fiducia in ragione della mia negligenza. La donna lamentava anche intrusioni nella vita privata della donna, con telefonate e messaggi in orari non consoni e fuori dal lavoro. Al caporeparto venivano contestati anche altri comportamenti inopportuni, tra cui accesi rimproveri al cospetto dei colleghi e battute sessiste: la invitava a essere gentile con i camionisti, pur conoscendo la sua omosessualità. E proprio da un camionista una notte fu molestata con palpeggiamenti. La lavoratrice accusò anche i sindacati di averla lasciata sola: "Quando impugnai il licenziamento, cercarono di farmi firmare una liberatoria tombale in cambio di 15mila euro, col tramite del sindacato, che liberava tutti da pretese e accuse. Capisco la Lidl, ma il sindacato...", dichiarava dopo la sentenza lei favorevole.
Lorenzo Priviato