Ravenna, 9 febbraio 2023 – Il casolare abbandonato non è il luogo del delitto, i tre imputati non c’entrano nulla con la morte del ragazzo, non ci sono prove e nemmeno indizi e non si è neppure trattato di un rapimento a scopo estorsivo. Perché quello di Pier Paolo Minguzzi “fu un omicidio di stampo mafioso”, un “classico esempio di lupara bianca”.
Così il giudice Michele Leoni, presidente della corte d’assise di Ravenna, ha riscritto il tragico epilogo della vita del 21enne - studente universitario oltre che carabiniere di leva a Bosco Mesola, nel Ferrarese, e figlio di una famiglia di imprenditori ortofrutticoli di Alfonsine - rapito e ucciso la notte tra il 20 e il 21 aprile del 1987 mentre rincasava dopo avere riaccompagnato la fidanzata.
Il cadavere del 21enne era stato ripescato dal Po di Volano il primo maggio successivo: i suoi aguzzini lo avevano incaprettato e zavorrato a una pesante grata. E per tutto il tempo, pur sapendolo già morto, avevano continuato a chiedere alla famiglia un riscatto da 300 milioni di lire.
Le indagini, aperte contro ignoti, erano state archiviate nel settembre 1996. Poi, a seguito di un esposto della famiglia, a gennaio 2018 la procura di Ravenna aveva riaperto il caso, questa volta canalizzando i sospetti verso tre persone. Alla sbarra c’erano finiti due ex carabinieri al tempo in servizio proprio alla caserma di Alfonsine: il 58enne Angelo del Dotto di Ascoli Piceno (avvocato Gianluca Silenzi) e il 57enne Orazio Tasca, di origine siciliana ma da anni residente a Pavia (avvocato Luca Orsini). E l’idraulico del paese: il 66enne Alfredo Tarroni (avvocato Andrea Maestri).
Tutti peraltro condannati (con pene già espiate) per un taglieggio, sempre da 300 milioni di lire, a un altro imprenditore del posto, Contarini: il conseguente appostamento dei carabinieri nel luglio 1987 era costato la vita a un giovane appuntato falciato da una pallottola “sparata da Del Dotto”.
Ma per quanto riguarda la sorte di Minguzzi, i tre “vanno assolti con formula piena per non avere commesso il fatto”, ha sottolineato Leoni in chiusura delle quasi 280 pagine di motivazioni della sentenza pronunciata il 22 giugno scorso a fronte della richiesta di altrettanti ergastoli. E così “purtroppo l’omicidio del 21enne resta tutt’ora un mistero. Anzi, un segreto”.
Un segreto che, almeno per la corte ravennate, è legato a criminalità organizzata di rango e non a una sgangherata banda di estorsori. Il motivo? “Non fu una morte per annegamento o un incidente. Si trattò di sequestro per omicidio per ragioni tutt’ora sconosciute”, di “un’esecuzione in piena regola, altra interpretazione non c’è”. Ecco il riferimento alla “lupara bianca”, omicidio “tipico di mafia che ricomprende anche l’occultamento del cadavere” che avrebbe dovuto “svanire per sempre” nel fondale del Po. Nessun dubbio per il giudice: l’eliminazione del ragazzo “avvenne con un rituale simbolico e tipico delle vicende di mafia”.
E in quanto al riscatto, la spiegazione potrebbe celarsi dietro alla volontà di “infliggere alla famiglia un ulteriore pregiudizio: non solo la perdita di un familiare ma anche un danno economico rilevante”. Nemmeno si può scartare “l’ipotesi di sciacalli che per conto loro tentarono di approfittarne”. La certezza granitica della corte è però sull’innocenza dei tre imputati: “Le congetture del pm sullo svolgimento degli eventi si sono sprecate” ma sono “prive di qualsiasi riscontro”.
E’ stato addirittura sconfessato il casolare abbandonato di Vaccolino, nel Ferrarese, quale scena del crimine sebbene da lì si ipotizzava fosse stata sradicata la grata: “Era un luogo per incontri sessuali, un posto frequentato”. E poi “vi erano coltivazioni attorno e attrezzi dentro: non era quindi così isolato e idoneo a tenervi un prigioniero”.
Ma non solo per questo “mancano sia prove che un seri indizi” a sostegno della ricostruzione accusatoria. E ben prima della perizia fonica che ha escluso Tasca quale telefonista da una cabina di Lido delle Nazioni, Leoni ha stilato un fitto elenco di divergenze a partire dalle corde che legavano Minguzzi: differenti da quelle trovate a Tasca e Tarroni. Poi ci sono le impronte isolate nel casolare: non sono di anfibi da carabiniere. E infine il fatto che l’ignoto telefonista nella chiamata del 27 aprile ai Minguzzi li nominò “Contarino, Contarini” tre mesi prima del taglieggio, per il giudice denota semplicemente questo: “Qualcuno non del luogo dava informazioni inesatte”.