Ravenna, 12 gennaio 2024 – Una realtà difficile da spiegare e da digerire, specialmente per i bambini. Il banco della piccola Wendy è vuoto da prima delle vacanze di Natale, ma Wendy non è in vacanza. La bimba frequentava la prima elementare alla primaria Camerani e ora i suoi compagni di classe si trovano ad affrontare un vuoto incolmabile. Ne abbiamo parlato con Ilaria Cataldo, psicologa dell’infanzia e docente all’Università di Parma che lavora da anni anche nelle scuole.
I compagni di classe di Wendy di certo ricorderanno per tutta la vita questi giorni. Come li si aiuta a razionalizzare quello che è successo?
"Proprio a partire dai 6 anni il tema della morte comincia a mutare, passa da evento temporaneo per il quale si dice che ’la persona è andata in cielo’ o ’si è addormentata’ a un’esperienza più concreta, con carattere di definitività. Non c’è, però, ancora una vera e propria regolazione emotiva. Il lutto è sempre complesso e i bambini possono manifestare in molti modi la difficoltà nel comprenderlo, anche con una forte angoscia. Anche perché non parliamo di una coetanea morta per malattia. È fondamentale il modo con cui gli adulti presentano il tema".
Ovvero?
"Una spiegazione troppo semplicistica rischia di lasciare dei ’buchi di trama’: dire ’è andata in cielo’ è riduttivo per un bambino che inizia a pensare alla morte come a qualcosa di definitivo, complesso e concreto. Non contiene le sue angosce".
Ma non si può nemmeno entrare troppo nel dettaglio
"No, anche considerato che questa è una storia complessa che include il suicidio, una mamma che avrebbe dovuto proteggerla e l’ingiustizia di quello che è successo. Gli adulti devono fare attenzione alle emozioni che si muovono dentro ai bambini".
A quell’età i bambini iniziano a farsi domande sulla morte?
"Cominciano a fare le prime domande. Va detto che oggi i bambini tendono a entrare prima in contatto con certi temi. A 6 anni, però, morte e lutto solitamente riguardano persone anziane e molto anziane. Forse per molti compagni non c’era ancora un legame consolidato con Wendy, ma il trauma della notizia rischia di rimanere impresso. E se raccontiamo al bambino una bugia, una realtà incompleta, lui rischia di sentirsi ingannato o tradito da adolescente, quando saprà cosa è successo davvero. Occorre ascoltare il bambino, validare le sue emozioni".
In questo anche la scuola è importante, oltre alla famiglia?
"Include tutte le figure nella vita del bambino, quindi anche gli insegnanti e pure il personale scolastico, ata o amministrativo".
Cosa può fare la scuola?
"Trovare momenti in cui lasciare spazio alle emozioni, non sull’orlo dell’urgenza ma nemmeno troppo tempo dopo. Occorre capire come stanno i bambini. Anche un supporto psicologico può accompagnarli, ma la figura deve essere introdotta con un progetto, o la persona nuova può essere elemento di allarme. Può essere un’idea anche mettere una scatola in classe per dubbi e domande, visto che non tutti reagiranno negli stessi tempi. L’assenza di Wendy peserà nei mesi a venire".
C’è anche l’aspetto mediatico. Avrà un impatto?
"Certo, influisce su ciò che il bambino sa. È una tragedia che coinvolge tutta la comunità e quindi anche gli altri compagni di scuola, fino ai 10/11 anni".
Negli ultimi anni si è parlato della pandemia e di come ha influito sui bambini. Si dice che li abbia resi più irrequieti. È vero?
"C’è un fondo di verità. Durante la pandemia si sono trovati davanti ad adulti che sono andati nel panico e non c’è niente di più allarmante per un bambino, che assorbe tutto dall’ambiente. Il 2023 è stato il primo anno con una parvenza di normalità, ma c’è ancora bisogno di metabolizzare e digerire".