"Le donne fotografano per conoscere, gli uomini per farsi conoscere". Parte anche da qui la riflessione proposta dalla mostra collettiva ‘Fotografia e femminismi. Storia e immagini dalla collezione Donata Pizzi’ che è possibile visitare fino al prossimo 15 dicembre alla Fondazione Sabe per l’Arte di Ravenna (orari giovedì, venerdì, sabato e domenica ore 16-19). Ne è curatrice Federica Muzzarelli, docente ordinaria di Storia della fotografia, in collaborazione con il gruppo di ricerca FAF/Dipartimento delle Arti dell’università di Bologna fondato insieme a Raffaella Perna dell’università La Sapienza di Roma e a Cristina Casero dell’università di Parma, nell’ambito del progetto PRIN 2020 ‘La fotografia femminista italiana’.
Muzzarelli, come nasce questa esposizione alla Fondazione Sabe che ha per focus la scultura, la più contemporanea delle arti?
"Ho accolto con piacere la proposta della galleria che, per tutto il 2024, ha messo in relazione la fotografia con la ricerca plastica, il paesaggio e lo spazio, fisico e mentale. Il pensiero è andato subito a Donata Pizzi, editor, ricercatrice e fotografa, e alla sua collezione che comprende 300 immagini di una novantina di fotografe, un patrimonio storico e culturale eccezionale".
Come avete selezionato le immagini?
"Non è stata un’operazione facile. Abbiamo individuato i nuclei tematici più vicini al lavoro delle donne fotografe dal 1965 in avanti e anche contenuti legati alla fotografia come strumento di espressione della creatività. Le sezioni sono cinque: album di famiglia, identità di genere, stereotipi e spazi domestici, ruoli e censure sociali, libri e oggetti femministi".
All’interno di ogni sezione è poi previsto un dialogo intergenerazionale…
"Sì. I lavori di artiste storiche come Liliana Barchiesi, Lisetta Carmi, Lucia Marcucci, Paola Mattioli e Tomaso Bingo, è accostato a quelli di fotografe più giovani quali Martina Della Valle, Giulia Iacolutti, Moira Ricci, Alessandra Spranzi e Alba Zari".
Come entra la fotografia negli album di famiglia?
"Come un rivoluzionario, piccolo, economico, frammento di affetti, storie, legami, identità. L’album di famiglia è un elemento domestico, banale e quotidiano, che accompagna fedelmente lo svolgersi delle nostre vite, sia facendosi oggetto reale e fruibile in presenza fisica, sia rimanendo un’esigenza simbolica e virtuale nell’epoca dei database digitali".
La fotografia è anche una strada per raccontare la diversità dalla norma?
"Sì. Nella sezione ‘Identità di genere’, è possibile ammirare alcuni ritratti della serie ‘I travestiti’ nel ghetto di Genova realizzata da Lisetta Carmi negli anni Settanta, così come la sera ‘Casa Azul’ di Giulia Iacolutti che racconta la condizione di cinque donne trans del penitenziario maschile di Città del Messico". A colpire è poi la serie ‘Le casalinghe’ di Liliana Barchiesi per la sezione ‘Stereotipi e spazi domestici’…
"Entriamo dentro i salotti, i tinelli e le camerette delle oneste e dignitose case della periferia milanese degli anni Settanta. La realtà di quotidianità alienante e con gesti ripetuti all’infinito, si scontra con gli obiettivi di emancipazione del Movimento delle Donne".
Completano la mostra una serie di pubblicazioni e cataloghi e una riproduzione anastatica di alcune maquette dell’iconico volume collettivo femminista ‘Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo’ (1978). Cosa può dire al riguardo?
"Nato come esperimento femminista, come momento di confronto e scambio di lavori da parte delle artiste del Gruppo del Mercoledì, il libro rappresenta oggi una tappa fondamentale per conoscere l’arte delle donne in Italia".