Negli anni ’70 esistevano solo i telefoni fissi – l’indimenticato apparecchio grigio con il disco combinatore - e se, come noi, non l’avevi neppure sotto forma di duplex, l’unico modo per apprendere con immediatezza quel che accadeva in città era il giornale o qualcuno che ti riferiva di persona. Fu proprio il Carlino, quel mercoledì 20 aprile 1976, a portare in casa nostra la notizia. Vado molto di memoria – e c’è un perché in questo ricordare – ma il titolo era qualcosa come “Studente ravennate muore investito da un’auto a Camaldoli”. I titoli seguono precise regole di comunicazione, ma fu la fotografia a corredo del breve articolo a raggelarmi. Conoscevo bene quel volto, poiché era il fratello minore di un mio caro compagno di scuola: lo studente si chiamava Mauro Fornasari.
La dinamica dell’incidente, come seppi poi, possedeva dell’incredibile. In gita col parroco il gruppo di ragazzi, giunti a Camaldoli, era sceso dal pullman. Mauro aveva attraversato la strada guardando in entrambe le direzioni, ma una vettura lo travolse: il portapacchi dell’automobile lo colpì netto al mento, provocandogli una violenta rotazione del capo che gli spezzò il collo. Non fu solo la portata dell’improvvisa tragedia a lasciarmi senza fiato, ma anche l’irruzione della morte nel mio intimo personale. Avevo allora 21 anni, quell’età in cui ci si ritiene immortali, quell’età che si pensa debbasi perpetrare in eterno e in cui si guardavano i quarantenni come anziani già con un piede nella fossa. E così riverberavo sulle mie amicizie, come se tutti noi nati in quegli anni ’50 godessimo d’una esenzione privilegiata e sicura dal momento finale.
A 21 anni, ora lo so, non si capiva ancora nulla della vita e dei suoi imprevedibili aspetti ma, in una sorta di fanciullesca e falsa sicurezza, s’era convinti del contrario. Andai alla funzione funebre dove incontrai i genitori di Mauro, Ginetta e Giulio, il fratello Valentino e Silvia, la sorellina. Una splendida famiglia – i Fornasari sono sempre stati belli – schiacciata dal dolore. Non potevo credere che quel ragazzo dalle doti pregiate, che suonava i Beatles a orecchio, che t’ammaliava con il sorriso buono della persona gentile, non fosse più. Non dissi nulla, rimuginando sull’immenso mistero e sugli infiniti perché di una morte che si palesava anche tra noi. Non sapevo allora come fosse questa a dare significato al tempo e alla vita.