La rendita Inail legata a quella malattia professionale solleticava i 150 mila euro. Ma quei soldi non sono mai usciti dall’istituto nazionale assicurazione e infortuni sul lavoro. A tirarli fuori quasi tutti (circa 130 mila euro), dovrà essere il patronato Inca-Cgil che aveva seguito la pratica in questione. Così ha ribadito di recente la corte d’appello di Bologna ricalcando in buona sostanza la sentenza con la quale già in primo grado nel luglio 2019 la sezione civile del tribunale di Ravenna aveva dato ragione alla lavoratrice in questione, una ultra-sessantenne tutelata dall’avvocato Fabio Fanelli. E per una ragione presto spiegata: avere lasciato decorrere il termine di prescrizione dell’azione giudiziaria finalizzata a ottenere la rendita Inail negata in sede amministrativa. Tra le altre cose, i giudici bolognesi, escludendo una gradazione del danno, hanno inoltre sottolineato in buona sostanza che il mandato non è gratuito visto che al patronato giungono risorse dallo Stato.
La malattia al centro della controversia civilistica, si era sviluppata in seguito a un infortunio accaduto nel febbraio del 1991. Ma a lungo era rimasta silente per palesarsi solo nel 1996. La diagnosi definitiva era giunta nel 1998. Ed è in quell’anno che la lavoratrice si era rivolta all’ufficio ravennate dell’Inca per farsi assistere con Inail. Ma, come già rilevato dal tribunale ravennate, nonostante i certificati medici allegati che attestavano lo stato di malattia della paziente e documentavano l’infortunio sul lavoro, la commissione medica dell’Inail aveva rigettato la richiesta di riesame ai dinieghi già manifestati nel 1999 e nel 2000 usando la formula: "Si definisce in disaccordo", senza però aggiungere nulla quale concreta motivazione della ritenuta origine non professionale della patologia.
Nel 2012, alla luce di ulteriori certificazioni che evidenziavano come quella patologia fosse proprio di origine professionale, la donna si era rivolta al suo avvocato per tornare a farsi sotto con Inail, questa volta in sede civilistica. A quel punto però dalla documentazione, era emerso che il patronato aveva mancato di interrompere la prescrizione dal giugno 2001 (data di rigetto del riesame) all’aprile 2006 (prima lettera di interruzione).
Secondo il patronato invece in buona sostanza nel momento in cui la lavoratrice si era fatta avanti, il termine di prescrizione triennale dettato dalla materia previdenziale era già decorso. E così tutte le vicende successive, erano prive di efficienza causale rispetto al mancato ottenimento della rendita.
Per il tribunale ravennate, dietro c’era invece una condotta colposa di omessa interruzione del termine di prescrizione appunto oltre che di mancata informazione della lavoratrice circa l’approssimarsi della prescrizione anche per proporre termine utile nell’azione giudiziaria.
Dopotutto sarebbe rientrata tra i compiti istituzionali previsti dell’ente dello Statuto, l’assistenza non solo in sede amministrativa ma anche giudiziaria. E per quanto riguarda la quantificazione della somma, per il giudice dirimente si era rivelata la valutazione del medico legale Piermichele Germanò il quale, dopo avere valutato le percentuali di invalidità della lavoratrice nei vari anni, aveva scritto nella sua relazione che "non mi è noto il motivo di diniego da parte di Inail del riconoscimento della malattia-infortunio. Resto dell’idea che (...) la patologia poteva ritenersi a livello presuntivo di origine professionale e cioè in tutela Inail".
Andrea Colombari