Una volta completato il tetto di quella casa a Corleto di Faenza, era contenta la padrona che vedeva la meta più vicina. Ed erano contenti i due fratelli titolari della ditta bassoromagnola che avevano eseguito i lavori di ristrutturazione e che vedevano ormai a portata di mano la parcella da incassare. Ma la banca aveva tardato nell’erogazione del mutuo da 31.900 euro, innescando malumori e la minaccia di smontare casa.
Secondo la procura, i due fratelli si erano spinti oltre cercando di dare fuoco il 7 dicembre 2020 al tetto dell’abitazione e finendo con il danneggiare l’adiacente magazzino (una ex porcilaia) nel quale erano custoditi i mobili. Uguale a richiesta di condanna pari a 8 mesi a testa. Il giudice Roberta Bailetti ieri mattina ha invece assolto entrambi gli imputati, come chiedeva la difesa (avvocati Andrea Visani e Stefano Geri), "per non avere commesso il fatto".
Secondo quanto riferito a suo tempo dalla padrona di casa - una 45enne parte civile con l’avvocato Maria Grazia Russo - la vicenda era passata prima attraverso lo smantellamento del tetto il 4 di agosto. Quindi il 6 novembre tutto sembrava essersi appianato grazie a un accordo transattivo da 10 mila euro. Un mese dopo, ecco il rogo: "I vigili del fuoco trovarono una tanica di benzina sul tetto - aveva continuato la donna - . Mi dissero che erano stati fatti vari buchi che avrebbero dovuto servire come punti di innesco. E che il tetto era stato cosparso di benzina ma non aveva preso fuoco". A fuoco era andata però la ex porcilaia con tetto in legno: "I danni ai mobili dentro, ammontano a circa 40 mila euro". Chi aveva agito, "aveva tranciato i robusti lucchetti, trovati a terra", e poi era salito "grazie alle impalcature". Ecco il possibile movente: "In una telefonata di agosto, l’ultima", alla donna era stato detto da uno dei due della ditta "che avrebbe dato fuoco alla casa. Poi non vi furono altre chiamate".
Secondo quanto sostenuto in arringa dalla difesa, i due fratelli non potevano essere responsabili del rogo in quanto gli accertamenti tecnici avevano mostrato che nell’orario in cui per l’accusa si sviluppavano le fiamme, i loro cellulari per un’ora erano rimasti agganciati alla cella telefonica che si trova a circa 300 metri dal bar di Faenza che frequentavamo quasi quotidianamente da oltre dieci anni, come testimoniato dal barista e da un cliente. E dunque non potevano trovarsi ad almeno 10 chilometri di distanza, luogo dell’incendio. Sul punto, cellulare alla mano, un consulente di parte ha fatto un esperimento sul percorso verso la struttura a fuoco attestando di avere via via agganciato le varie celle. Inoltre per la difesa era errata l’indicazione accusatoria sull’orario del rogo: da testimonianze si sarebbe propagato tra le 21.20 e le 21.45, orario nel quale i due imputati, come attestato dalle telecamere del cavalcaferrovia di Faenza, stavano andando verso casa loro.