Zeffirino Servidei aveva accolto con uno strano armisclero interiore l’idea del concerto-gara per l’ultimo dell’anno. Quel non sapere con chi si sarebbe dovuto misurare, quel mistero che il gestore della balera, Supremo Tarroni - un ometto saccagnato con la faccia da bésagâlana – non voleva dissipare nascondendosi dietro alla frase "mo l’è brév dimondi". Insomma: lui, Zeffirino, il "sacario della fisarmonica" come lo soprannominavano, e quel sacario voleva proprio intendere "elegante" perché le sue mani volavano sulle tastiere con ineguagliata eleganza, lui Zeffirino si sarebbe misurato con uno sburone sconosciuto. Pavura? No. Zeffirino era il miglior fisarmonicista della Romagna e anche di San Marino, il carattere più tamugno, il virtuosista inarrivabile, il re dei registri, la stella starluccicante della cantabile. Non c’era storia, e nessuno poteva strolgarsi un fisarmonicista migliore.
Aveva le dita lunghe, affusolate, forti, perfette per le tastiere della Scandalli Super VI: un dono del Signore, diceva la sua mamma; un dono di sua mamma, diceva lui, ché nel Signore non ci credeva e lo lasciava tutto ai preti. Ed era vero, la mamma gli aveva trasmesso le mani, a differenza degli altri fratelli che dal padre avevano ereditato le dita a salsiccia. Sicché, sicuro di tanto, riprese a definire la scaletta di brani che gli avrebbe permesso una vittoria facile e scontata, e principiò a volare tra beguine, tanghi, mazurche, fox e polke. La sera di due giorni dopo, ultimo dell’anno, Zeffirino lasciò la Lancia Thema nel parcheggio della Ca dé Lès, mise in spalla gli oltre dieci chili della Scandalli ed entrò dall’ingresso artisti. Supremo lo accolse a paconi sulle spalle, allegro: "Ho rimasto cinque scarane libere, un successo, un successo", e Zeffirino pregustò il suo trionfo con appena un accenno di risarola. Arrivò il momento del palcoscenico. Due sedie, due microfoni, due leggii. Dell’altro musicista, nessuna traccia. Tolse la Scandalli dalla custodia con tutto il riguardo che quella meravigliosa purosangue meritava, cominciò ad aggiustarsi nella postazione e vide un’immagine che lo lasciò sbattezzato: una giovane suora, alta, sorridente, che si dirigeva verso di lui portando l’inconfondibile sagoma di una borsa a ruote per fisarmonica. Una suora fisarmonicista? Mo va là, si disse sgrullando la testa, vedrai che stravanata ti darò, purina!
Basta, s’aprì il sipario, i contendenti furono presentati e lo spettacolo iniziò. Zeffirino attaccò un languido tango che incantò tutti: le dita volteggiavano sulla melodica, il mantice precipitava da timbriche dense a lievi sussurri, e fu un applauso scrosciante. Toccò a suor Giuditta, così si chiamava. Dalla sua Superpaolo uscirono le oscillazioni ritmiche d’una composizione mai sentita: una brezza che si sollevò da terra e spiccò il volo verso il cielo, per precipitare nuovamente a terra. Applausi a tirombella. Un’impercettibile sudarula apparve sulla fronte di Zeffirino che replicò con un potpourri di fox e samba. Suor Giuditta rispose con un gioco del mantice che simulava il respiro umano per poi esplodere in un glissato che parve un’ode alla vita, suscitando il delirio del pubblico. Allora Zeffirino comprese di dover abbandonare la collaudata scaletta per improvvisare, e improvvisò: bellows shake, ricochet, scale, registri, ma la risposta della religiosa fu una melodia talmente intensa da parere soprannaturale.
La competizione proseguì con un Zeffirino sempre più in difficoltà impetto alle soavi armonie di suor Giuditta: pareva che quella fisarmonica avesse il doppio delle voci rispetto alla sua Scandalli. Comprese come la competizione fosse persa al Magnificat finale, un’esecuzione così trascendente da lasciarlo intavanato. Stizzito ripose la Scandalli, salutò di malagrazia il gestore, uscì. Ci ripensò, tornò sui sui passi. "Voglio complimentarmi con suor Giuditta". Tarroni lo squadrò perplesso. "Una suora in balera? Mo sei inciciuito? Datti una mossa ció, che sei in ritardo…"