Era ancora un ragazzino quando ha cominciato ad apprezzare l’arte di lavorare il legno, nel cantiere di De Cesari e Sartini dove si costruivano mosconi e capanni balneari, poi si è messo in proprio e per decenni ha contribuito, assieme al terzo cantiere, Turci, a fare di Cervia, negli anni in cui esplodeva il boom delle barche a vela, il centro della miglior professionalità dell’Adriatico nella costruzione di barche, da diporto, da regata e di lusso. Lui, Domenico Fioravanti, è oggi uno degli ultimi storici maestri d’ascia della zona, che dai primi anni Sessanta in poi ha messo mano, fra manutenzioni e costruzioni, a ben più di un migliaio di imbarcazioni da Trieste a Bari, ma anche i giro per il mondo e oggi è ultimo custode delle tradizioni e dell’antico sapere un tempo necessario per dar vita a una barca, destinati a svanire davanti ai nuovi orizzonti della tecnologia. Chiusa da tempo l’attività, Fioravanti non ha abbandonato l’arte della cantieristica, l’ha ridotta in scala, costruisce modelli di barche anche utilizzando aghi di pino: il Museo del Sale ospita una mostra di molti suoi esemplari. Fiorvanti, quando ha iniziato, molto si faceva a mano, di macchinari non ce n’erano molti.
"Parliamo di quasi ottant’anni fa, ricordo che utilizzavo il trapano a mano e che addirittura con la lima facevo il taglio sulla testa delle viti. Avevo forse 12 anni, doveva essere il 1948. Avevo finito la sesta elementare. Prima sono andato come garzone da un idraulico, poi alla bottega di De Cesari e Sartini, due cugini, era in piazza, nel Vescovado. Costruivano i mosconi, i remi e i capanni per gli stabilimenti balneari".
Lei è fra gli ultimi testimoni dei cambiamenti epocali di Cervia.
"Ho sempre vissuto qui sul porto canale, a Borgo Marina. Pensi che negli anni 40 nelle case qui attorno al faro noi bambini eravamo un centinaio! Ci trovavamo a giocare nello scivolo delle barche, allo squero, in estate eravamo sempre in acqua, nel porto canale. Adesso di bambini non ce ne sono più e il porto è off limits! Per non parlare del resto".
Mi dica della sua famiglia.
"Qui a Cervia, nell’Ottocento venivano a pescare da Chioggia, da Goro, da Comacchio. La famiglia di mia mamma, Fernanda Padovan, veniva da Chioggia e si trasferì qui mentre la famiglia del babbo, Luigi, veniva da Rimini. Anche loro pescatori. E si sposarono. Io sono il secondo figlio, prima c’era Colombo, poi Stelio, l’ultimo, Chino, è nato nel dopoguerra. Nostro babbo ha però sempre detto che noi non avremmo dovuto fare i pescatori, troppa miseria e così abbiamo scelto altre strade".
Ottant’anni fa, di questi giorni, il 22 ottobre, a Cervia arrivarono gli Alleati. Cosa ricorda?
"Uno dei miei fratelli andò in piazza ad accoglierli, io e la mamma restammo in casa, in viale Volturno, c’era ancora il rischio dei cecchini. In quei mesi i tedeschi ci avevano fatto cambiare spesso zona, ci facevano evacuare. Pensi che avevano portato verso le saline i bragozzi da pesca per farli saltare".
Dopo la guerra lei, come diceva, andò a lavorare da De Cesari. Pensava che fosse quello il suo futuro?
"Sì, anche perché col passare degli anni avevamo cominciato a costruire le prime barche da regata e i motoscafi. Quando fu il tempo del militare scelsi la Marina perché solo così avrei poi potuto dare l’esame e diventare maestro d’ascia, titolo necessario per poter costruire barche". Al rientro dai militari cosa fece?
"Rimasi ancora due anni con Adriano De Cesari poi, penso fosse il 1960, mi misi in proprio qui al piano terra della casa in cui abito e che era di mia zia. Cominciai continuando a costruire mosconi perché come dicevo De Cesari aveva lasciato quel ramo. Lavoravo soprattutto in inverno, ne facevo 40 all’anno e 200 remi. Con me c’erano mio fratello Stelio e due ragazzi". Quando è passato alle imbarcazioni?
"Per poter costruire occorreva diventare maestro d’ascia. A indurmi a questo passo fu l’ingegnere Epaminonda Ceccarelli di Ravenna che aveva fiducia nelle mie capacità. Così mi misi a studiare sul libro ‘L’arte dei maestri d’ascia’, mica c’erano scuole…e diedi l’esame. In commissione c’erano il comandante della Capitaneria di Porto, un ingegnere navale e altre due persone. Andò benissimo. Era il 22 maggio 1974".
Quindi cominciò a lavorare per Ceccarelli.
"Ed è cominciata l’avventura- Ho costruito barche da diporto, dieci modelli ‘Passatore’, poi barche da regata, era il tempo del boom della vela. Poi fu il tempo degli scafi in vetroresina e io cominciai a costruire i gusci che servivano da modello. Pensi che fra nuove barche, manutenzione, riparazioni dopo incidenti, allestimenti interni, ogni anno ne uscivano dal mio cantiere 60/70. Complessivamente in tutti gli anni dell’attività penso di aver avuto a che fare con almeno un migliaio di imbarcazioni, compreso un peschereccio e un trimarano commissionato da un americano! Ovvio che nel frattempo io e mio fratello Stelio avevamo allestito il nuovo cantiere in un capannone verso il cimitero. Ce l’ho ancora e spesso ci torno, non ne posso fare a meno!".
Da dove venivano i clienti?
"Da tutto l’Adriatico, da Trieste a Bari. Uno dei primi fu Cino Ricci, e poi anche dal mondo, ho riparato barche storiche portate dall’Australia e dalla Svezia".
In quanti eravate a lavorare? "Io, mio fratello e cinque dipendenti. Gente bravissima, purtroppo sono rimasti in due, Giuseppe Zanini e Marino Nicolucci. Pensi che ho smesso l’attività nel 2007 anche perché andavano in pensione i miei operai e di gente esperta non ce n’era più".
Dopo la pensione ha cominciato con i modellini?
"Sì. Giuseppina mi diceva: ’ma non riposi mai!’ Lei purtroppo è morta due anni fa subito dopo i 50 anni di matrimonio. Mi è rimasta la figlia, Flavia. Dicevo dei modellini. Sono in mostra al Musa. Ci sono anche quelli con lo scafo ricoperto di aghi di pino, che pazienza a farlo!".