di Filippo Donati
RAVENNA
C’è un numero, quattrocento – il totale degli edifici a rischio delocalizzazione perché prossimi a una frana – ch nelle ultime ore ha seminato lo scompiglio sull’Appennino bolognese e romagnolo. La cifra è contenuta in uno studio che l’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po, in collaborazione con le Università di Bologna e di Modena e Reggio, e col settore Difesa del suolo della Regione, ha redatto ormai vari mesi fa, i cui risultati sono stati poi inseriti nel Piano speciale preliminare, e che da lì approderanno in quello definitivo, in corso di validazione. Tommaso Simonelli è fra i geologi dell’Autorità di bacino che hanno contribuito allo studio, parte del complicatissimo ‘dossier delocalizzazioni’.
Dottor Simonelli, il capitolo è forse il più spinoso dell’intera galassia della ricostruzione, non è così?
"Mi si lasci evidenziare che la presenza di 400 immobili in prossimità di frane complesse non significa che dovranno essere sfollati altrettanti nuclei familiari. La ricerca si basa su foto satellitari, cosiddette ‘ortofoto’, che hanno sì una precisione di trenta centimetri, ma che si limitano a riportarci un’immagine dall’alto di una costruzione e della sua vicinanza a frane complesse, quelle cioè con scorrimento su strati, difficili e costose da sistemare, talvolta in maniera non risolutiva".
Le 80mila frane disseminate sull’Appennino quanti edifici minacciano?
"La nostra ricerca ha individuato inizialmente 3500 edifici posti entro un raggio di venti metri da una frana. Di questi, 2200 sono però prossimi a smottamenti non gravi, già stabilizzati. Fra i rimanenti 1300, circa 400 sorgono in prossimità di frane complesse, mentre per gli altri 900 edifici dovrebbero essere possibili interventi di mitigazione del rischio".
Per avere un quadro completo occorrerà mettere gli stivali sul terreno, giusto?
"Saranno probabilmente i Comuni a mandare tecnici sul territorio per verificare la natura e lo stato dell’edificio. Può trattarsi di un fabbricato agricolo a fianco di un edificio un tempo abitato ma oggi abbandonato, o di una seconda casa utilizzata solo sporadicamente. In secondo luogo andrà verificato lo stato dell’immobile: le foto aeree non possono dirci se sia solcato da crepe gravi, se al suo interno abbia subito crolli. Davanti a questi dati si faranno analisi sulla base di costi e benefici: consolidare una frana complessa può richiedere vari milioni di euro".
Quali risorse verranno messe in campo?
"Nel piano speciale credo si definirà un parametro a metro quadro per ciascun edificio: la Regione Piemonte, per fare un esempio, prevede importi pari a quanto costerebbe costruire in edilizia convenzionata. I Comuni nell’ambito dei propri piani urbanistici individueranno poi delle ‘aree di atterraggio’ in cui eventualmente ricostruire".
Trovarle non sarà semplice, considerando che tutto il territorio è ormai minacciato dal dissesto idrogeologico.
"Le norme di salvaguardia vietano di realizzare edifici nelle aree a rischio. E’ possibile che dentro i territori comunali ci siano margini per operazioni di rigenerazione urbana. Voglio inoltre rassicurare che nessuno intende snaturare l’identità culturale di un luogo. Per un sito di interesse culturale credo sia giusto valutare interventi dai costi elevati"".