Tre nomi storici del tessuto economico ravennate: Asa Holding, Romauto e soprattutto Arca. Società accomunate da un medesimo destino: il fallimento per un totale di 33 milioni di euro di passivo. E tre condanne legate perlopiù alle conseguenti bancarotte: 6 anni e sei mesi per l’immobiliarista Giuseppe Musca; 5 anni e 8 mesi per la moglie Susi Ghiselli; e 3 anni per il figlio del primo, l’imprenditore Nicola Musca, l’unico dei tre imputati che veniva da un’assoluzione. C’è inoltre la conferma delle provvisionali che tra la curatela fallimentare di Asa e di Romauto (avvocato Domenico Benelli) e quella di Arca (studio Moretti & Fulco di Roma), ammontano a diversi milioni di euro. Il principale, e più combattuto, dei fascicoli aperti sulla famiglia Musca, si è chiuso ieri pomeriggio davanti alla corte d’appello di Bologna dopo una gimcana giudiziaria che lo aveva fatto approdare fino alla Cassazione. Ad alimentare il tortuoso percorso, era stato il colpo di scena che aveva caratterizzato il primo appello Bologna dell’aprile 2021 quando la corte aveva deciso di annullare la sentenza dichiarando, come chiesto dalle difese, la nullità del decreto di giudizio immediato e ordinando la restituzione degli atti alla procura di Ravenna.
Ma il ricorso di quest’ultima alla Suprema Corte, aveva fatto retrocedere di nuovo tutto a un appello-bis. E così tutti di nuovo in aula a Bologna, compreso il pm Lucrezia Ciriello che aveva coordinato le indagini della guardia di Finanza. E che, dopo quasi due ore di requisitoria, a metà aprile scorso aveva chiesto la condanna per tutti e tre gli imputati: 11 anni per l’immobiliarista Musca, 9 anni per la moglie e 4 anni per Musca junior. Le richieste erano state inferiori a quelle formulate in primo grado perché per alcuni capi d’imputazione per i quali era stata pronunciata assoluzione, la procura aveva poi deciso di non impugnare. In particolare a Ravenna nel settembre 2018 era finita a 10 anni e 6 mesi per Musca, 8 anni per la moglie e assoluzione per Musca junior. A suo tempo l’immobiliarista Musca si era assunto la paternità di quasi tutte le operazioni definendole di natura puramente imprenditoriale e soprattutto condotte nella legalità. Nello specifico in aula aveva sostenuto che quando aveva lasciato le varie società finite poi al vaglio delle Fiamme Gialle, queste non si trovavano in quello stato che gli addetti ai lavori definiscono di decozione (cioè di insolvenza prossima al fallimento). In questo contesto, si era assunto la responsabilità di manovra. E non solo per le operazioni fatte personalmente: ma, con dei distinguo, anche per quelle che altri – quelli che l’accusa indica quali prestanome – avevano fatto per lui: operazioni che cioè aveva avvallato, condiviso e seguito. Per Romauto aveva detto che i bilanci a suo avviso era ampiamente falsati da operazioni pregresse riconducibili a precedenti gruppi finanziari. Situazione analoga l’aveva descritta per Asa. Mentre per Arca, aveva precisato di non avere avuto alcuna volontà di fare fallire la società ma di avere anzi fatto di tutto per arrivare a salvarla. I giudici felsinei hanno invece evidentemente ritenuto non solo che le operazioni fossero state improntate a svuotare le società, come sostenuto dalla procura. Ma che, a seconda dei fallimenti, vi siano state responsabilità distribuite in tutti e tre i membri della famiglia. Per sapere in che modo, occorrerà attendere il deposito delle motivazioni entro 90 giorni. Scontato il ricorso delle difese. A partire dall’avvocato Giorgio Guerra che difende Musca junior e che ha sottolineato come ribaltamenti da assoluzione a condanna richiedano motivazioni rafforzate.
Andrea Colombari