REDAZIONE RAVENNA

Deve 40mila euro allo Stato, "ma non ci fu dolo"

Per la pensione di guerra un conselicese (deceduto) è stato ’assolto’ dalla Corte dei Conti. Gli eredi non dovranno restituirla

Per la pensione di guerra un conselicese (deceduto) è stato ’assolto’ dalla Corte dei Conti. Gli eredi non dovranno restituirla

Per la pensione di guerra un conselicese (deceduto) è stato ’assolto’ dalla Corte dei Conti. Gli eredi non dovranno restituirla

Deve quasi 40 mila euro di pensioni alla Ragioneria dello Stato ma non li dovrà restituire. Così hanno stabilito due sentenza della Corte dei Conti: dell’Emilia Romagna (foto di archivio) e, nei giorni scorsi, della sezione prima d’appello di Roma. La ragione è presto rivelata: nel comportamento dell’anziano, un ultraottantenne di Conselice più di recente defunto, non c’era stato dolo. E per la vicenda in questione, la legge, come rimarcato sin dall’inizio nel ricorso del suo legale Massimo Ricci Maccarini, prevede che solo davanti a omissioni volontarie, la cifra incassata indebitamente possa essere recuperata dallo Stato. In particolare l’omissione consisteva nel non avere comunicato di avere a un certo punto superato la soglia oltre la quale, assieme a quella di anzianità, non avrebbe potuto incassare l’altro assegno di cui godeva: e cioè il trattamento pensionistico di guerra in quanto orfano maggiorenne inabile.

Per l’esattezza la cifra ammonta a 39 mila e 700 euro: un gruzzoletto frutto della pensione di guerra riconosciuta al conselicese a partire dal primo gennaio 2011. Ma per poterla conservare, c’era bisogno del requisito di reddito previsto da una legge del 1978. E il pensionato lo aveva perso il primo gennaio 2015, nonostante ciò continuando a riscuotere per un totale di quasi 40 mila euro appunto. Una volta realizzato che il conselicese in questione non avrebbe più potuto incassare quei soldi, nel 2021 la Ragioneria territoriale dello Stato si era fatta avanti contestandogli l’esistenza di un debito erariale e intimandogli di restituire tutto entro 30 giorni.

Nel frattempo, alla luce delle condizioni del pensionato, il giudice tutelare di Ravenna aveva nominato sua figlia quale amministratrice di sostegno (siamo nel luglio 2018) autorizzandola poi a fare ricorso contro il minimetro dell’Economia e Finanze (Mef). E già nel dicembre 2021 la Corte dei Conti regionale le aveva dato ragione escludendo, "con ogni ragionevole evidenza, la sussistenza del dolo", unica questione su cui "ruota la decisione di merito" di questo caso. Dopotutto già nel maggio del 2008 la commissione in materia di accertamento dell’invalidità civile dell’Ausl di Ravenna - si legge nella sentenza - aveva "dichiarato per il pensionato ’la necessità di assistenza continua, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita’" a causa di problemi cognitivi e altri acciacchi.

Per i giudici erariali di primo grado era cioè evidente che già quando nel 2011 gli era stata riconosciuta la pensione di guerra, non aveva "da tempo la capacità di rendersi adeguatamente conto degli accadimenti della vita" compresi "quelli legati a reddito e pensione". Come dire "nessuna consapevolezza e comportamento fraudolento". In quanto all’amministratrice di sostegno, era arrivata nel 2018: "Quindi ben dopo la concessione del trattamento pensionistico di guerra": e così, considerati i problemi cognitivi del pensionato, lei "non era nelle condizioni di conoscere l’obbligo di comunicazione" del superamento della soglia di reddito previsto dalla legge del 1978.

I giudici contabili d’appello, dopo avere escluso vizi di nullità legati alla eventuale violazione di diritto di difesa, hanno condiviso il ragionamento dei colleghi bolognesi confermando anche la condanna del Mef al pagamento delle spese: 1.000 euro erano stati fissati a Bologna; altri 1.500 si sono aggiunti ora.

Andrea Colombari