In prima linea su tutte le emergenze, e la pandemia non fa eccezione. Il 118 si è dovuto adattare in fretta al cambiamento due anni fa, acquisendo flessibilità e competenze che porteranno con sé nel tempo. Ne abbiamo parlato con Maurizio Menarini, responsabile medico della centrale operativa.
Menarini, ritorniamo indietro di due anni. Come è cominciata?
"Con un nesso molto stretto tra notizie di stampa, allarmi e telefonate al 118. Abbiamo avuto un picco di chiamate dopo il primo caso di Vo’ Euganeo: siamo passati da una media di 450 al giorno in Romagna a 1350, che è stato il picco massimo assoluto". Come mai?
"Moltissime persone chiedevano informazioni, non c’era l’epidemia ma c’era la paura. Per noi il rischio era non riuscire a rispondere alle vere chiamate di emergenza. È stato fatto un grande lavoro di filtro da parte degli infermieri della centrale, oltre che di potenziamento".
Poi è arrivata la pandemia vera e propria. Come l’avete affrontata?
"Andando un po’ in controtendenza, cercando di filtrare le richieste andando a casa a valutare la situazione, per capire se servisse il ricovero o no. Alcune evoluzioni della malattia ancora non erano comprese. L’impatto è stato forte anche a livello emotivo per gli operatori, c’era il timore per le proprie famiglie. Tutti hanno fatto un grande lavoro e ne siamo orgogliosi, nonostante non ci sia stato molto spazio per recuperare le energie". Neanche d’estate?
"No, perché d’estate il lavoro aumenta sempre col turismo. Nel 2021 in particolare siamo arrivati a valori superiori al 2018 e al 2019 a causa delle presenze di visitatori".
Il momento più duro?
"Marzo del 2020. Le persone che chiedevano aiuto erano sempre di più e non vedevamo l’orizzonte, non sapevamo come sarebbe andata e ogni giorno sembrava peggiore del precedente. Oggi è diverso".
Come vanno le cose ora?
"La situazione sta migliorando, nell’ultimo mese il 118 non ha avuto grandi sovraccarichi di lavoro. Ci sono dei positivi ma non tanti casi critici, e ormai anche questa è diventata la normalità per noi. Siamo più abituati a gestire queste situazioni e i pazienti sono meno spaventati". Che cosa vi hanno insegnato questi due anni?
"In primis l’importanza del lavoro di squadra, che è una cosa che si dice sempre ma è vera. La grande forza è stato il sistema del 118 Romagna che ha messo in comune esperienze, volontà e motivazione. L’altra cosa è che non si smette mai di imparare: in questo lavoro non si può mai dire di aver imparato tutto. E poi c’è un terzo aspetto".
Ovvero?
"L’organizzazione sanitaria, che quando è forte ti dà modo di rispondere anche agli imprevisti. I sanitari non sono eroi, ma persone che si sono messi a disposizione anima e corpo in momenti in cui il riposo era una chimera". Si parla spesso della mancanza di operatori sanitari. È un problema che affligge anche il 118?
"Anche noi combattiamo con questa carenza, ma siamo negli standard. In Romagna il nostro valore aggiunto è avere infermieri sui mezzi di soccorso e la possibilità di inviare un medico sul posto con l’automedica o l’elicottero. Il 118 in questo modo è un ospedale che si muove sul territorio che lavora al massimo livello professionale già nel luogo di soccorso. Non è così in tutt’Italia. Credo che questo sia il futuro della sanità pubblica e del 118 in particolare".
Sara Servadei