REDAZIONE RAVENNA

"Costi alti e nessun ristoro, la trattoria non riapre"

La decisione della famiglia Mamini, al timone del ‘Ponte Rosso’ di Faenza "Dopo l’alluvione per portare via il fango sono stati necessari 18 automezzi".

"Costi alti e nessun ristoro, la trattoria non riapre"

In una città in cui i gestori dei ristoranti si avvicendano uno dopo l’altro a una velocità a volte sorprendente, c’è un luogo in cui, come nel film ‘Casablanca’, "tutti vengono da Rick". La trattoria ‘Ponte Rosso’ è stata un punto fermo per i faentini per venticinque anni, dal 1998 al 2023, quando l’alluvione della notte fra il 16 e il 17 maggio ha fatto irruzione nei locali di quella che un tempo era una casa colonica, abbattendo le porte, lanciando tavoli e sedie contro le vetrate, andate in frantumi, distruggendo cucine e dispense e sradicando i banconi. Oggi Valeriano Mamini, a lungo al timone del locale insieme alla moglie Rita Botti e alla figlia Valeria, si aggira malinconico in quelle sale che altrimenti avrebbero visto loro e i dipendenti – quattro camerieri e un cuoco – prepararsi per i duecento coperti che puntualmente avrebbero fatto registrare nel finesettimana. La trattoria ‘Ponte Rosso’ non riaprirà più: "Troppi e troppo costosi i lavori da mettere in campo per consentire al locale di risollevarsi – confida Mamini –. Se i risarcimenti fossero stati celeri avremmo potuto programmare di ripartire, ma così è impossibile". La famiglia ha tenuto aperte alcune opzioni per il futuro, ma per il momento si tratta di semplici ipotesi. Settantacinquenne al momento dell’alluvione, Mamini aveva programmato di rimanere alla guida della trattoria fino agli ottant’anni. Non è andata così. "Ogni volta che esco di qui incontro clienti che mi chiedono quando riapriremo. Dico loro la verità con un groppo in gola". Anche per questo Mamini, come capitato a molti anziani messi a dura prova dall’alluvione, esce sempre meno, "complici pure alcuni problemi di salute che l’amarezza ha reso più difficili da superare".

Il locale sorgeva in una casa colonica oggi costeggiata dal Ponte Rosso, a lungo di proprietà di un’importante famiglia della zona, come testimoniato dall’ala più a est decorata da fregi neoclassici, segno inequivocabile di chi fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento aveva la possibilità di distinguersi adottando lo stile allora più in voga. Risale a quegli stessi anni il platano monumentale che affianca il ristorante: fra le sue fronde è soffiato lo stesso vento che scompigliava i capelli delle varie generazioni di faentini che si sono seduti a questi tavoli. La cucina proposta dalla trattoria, analogamente, è sempre rimasta fedele a se stessa: "Piatti tipicamente romagnoli" – spiega fiero Valeriano Mamini, indicando attorno a sé "i tavoli su cui preparavamo la pasta fresca, i frigoriferi, le cucine, i forni acquistati da poco, l’ala riservata alle verdure, quella dedicata al pesce, le cantine che i fornitori avrebbero dovuto riempire di nuovo di lì a qualche giorno". Contrariamente a molti locali più recenti, la trattoria si snodava lungo gli spazi enormi tipici delle case coloniche: ambienti invasi da due metri e mezzo d’acqua, il cui segno è riconoscibile poco sotto il livello dei soffitti. "Per portare via tutto quel fango sono stati necessari diciotto automezzi, e decine di volontari". Da allora il tempo si è fermato, forse per sempre.

Filippo Donati