Consorzio di Bonifica di Lugo, tutti assolti

La procura aveva chiesto la condanna dei sette imputati fino a tre anni di reclusione: ma per il tribunale "il fatto non sussiste"

Consorzio di Bonifica di Lugo, tutti assolti

Consorzio di Bonifica di Lugo, tutti assolti

Tutti assolti con formula piena da quasi tutti i capi d’imputazione "perché il fatto non sussiste". Per quanto riguarda il contestato falso, derubricato ad altra ipotesi, l’assoluzione è arrivata "perché il fatto non costituisce reato".

È quanto ieri pomeriggio, dopo circa un’ora di camera di consiglio, ha deciso il collegio penale del tribunale di Ravenna, presieduto dal giudice Antonella Guidomei, in relazione alla vicenda maturata all’interno del Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale (che ha sede a Lugo). La procura aveva invece chiesto condanne comprese tra i due anni e mezzo e i tre anni di reclusione per tutti e sette gli imputati accusati a vario titolo di peculato, truffa aggravata perché ai danni dello Stato e falso ideologico in relazione a contestati usi impropri di auto di servizio, a richieste ritenute non congrue di straordinari o di rimborsi chilometrici e a vari episodi di presunto assenteismo. Il pm aveva anche chiesto la trasmissione atti per il direttore generale e per il presidente all’epoca dei fatti al fine di vagliare la loro posizione alla luce di quanto emerso durante il dibattimento. Le difese avevano invece chiesto l’assoluzione degli imputati con varie argomentazioni. Taluni legali in estrema sintesi avevano sostenuto che i loro assistiti in realtà fossero state vittime di un sistema che sfruttava il loro lavoro: e che dunque, per il senso del dovere, si fossero ritrovati nei guai. Entro 90 giorni verranno depositato le motivazioni: a quel punto la procura avrà modo di presentare ricorso in appello.

In totale all’inizio erano otto gli indagati: a suo tempo uno aveva però chiesto di procedere per altro sentiero giudiziario (la

messa alla prova). In linea generale si tratta di figure apicali al tempo dei fatti contestati: ovvero un dirigente d’area, un caposettore e sei capireparto. Tutti erano stati a suo tempo destinatari di una misura interdittiva di sospensione dal lavoro: variabile, a seconda della posizione ricoperta e della gravità delle contestazioni mosse ai singoli, da un massimo di dodici mesi a un minimo di sette: misura poi revocata dal tribunale bolognese della Libertà su istanza delle difese.

Per gli indagati – difesi dagli avvocati Giovanni Majo, Alessandro Docimo, Marina Venturi, Dina Costa, Giovanni Scudellari, Marco Martines e Giorgio Guerra – i guai si erano materializzati attraverso l’inchiesta della polizia battezzata ‘Dirty water’. Gli accertamenti erano in particolare scattati a cavallo tra il 2018 e il 2019 grazie alle rivelazioni di una fonte confidenziale circa un sistema tratteggiato come noto a molti e consolidato da tempo. Le verifiche della polizia (Digos) coordinate dal pm Angela Scorza, erano passate attraverso pedinamenti – anche fino a una bocciofila imolese –, intercettazioni, raccolta di testimonianze, gps a calamita appiccicati sotto ai mezzi e materiale video. Inoltre sia a inizio che a fine estate 2019, su delega della procura, gli investigatori avevano eseguito due accessi alla sede lughese del Consorzio acquisendo vari documenti.

Alla luce di tutto ciò, gli inquirenti avevano ricostruito un presunto sistema diffuso del "malaffare", come l’aveva definito il gip Andrea Galanti nella sua ordinanza restrittiva, caratterizzato dall’uso improprio dell’auto di servizio, dall’allontanamento sistematico dal posto di lavoro durante l’orario di servizio e da false attestazione circa ore di straordinario in realtà mai prestate. A queste, sempre secondo le contestazioni della procura, si aggiungeva la creazione di un vero e proprio sistema illecito di rimborsi chilometrici per conseguire di fatto una indebita integrazione dello stipendio. Il collegio penale ha però inquadrato la vicenda in altro modo.