I due membri principali del cda, ovvero il presidente Fabrizio Tozzi e l’amministratore delegato Mario Tozzi, sono stati condannati a tre anni e nove mesi di reclusione a testa. Gli altri sei imputati sono stati invece assolti: gli amministratori "per non avere commesso il fatto" e i sindaci revisori "perché il fatto non costituisce reato". Da ultimo sono stati riconosciuti 10 mila euro a testa per ogni creditore costituitosi e una provvisionale da 5 milioni di euro al concordato lasciando eventualmente ad altra sezione del tribunale, quella civile, la definizione del risarcimento finale.
Così ieri pomeriggio, dopo oltre sei ore di camera di consiglio, hanno deciso i tre giudici del collegio penale in merito al procedimento che si era aperto con il concordato della ’Comart spa’. Il pm Lucrezia Ciriello aveva chiesto otto condanne: da un anno e mezzo a cinque anni di reclusione. I cinque membri del cda dal 28 dicembre 2015, dovevano rispondere a vario titolo sia di bancarotta fraudolenta in concorso aggravata da reato societario che di distrazione aggravata. L’accusa per i tre sindaci revisori dei conti dal 15 luglio 2003, momento di costituzione della società con atto notarile, era di bancarotta semplice in concorso.
Le difese - avvocati Ermanno Cicognani, Giovanni Scudellari, Antonio Primiani, Olmo Artale, Luca Sirotti e Norris Bucchi - avevano chiesto l’assoluzione di tutti gli imputati tra le altre cose sostenendo in sintesi l’insussistenza di qualsiasi aggravamento del dissesto societario; l’insussistenza delle falsità in bilancio e l’inesistenza del rapporto di causa tra comportamento di amministratori e sindaci co l’evento contestato dall’accusa.
Il caso si era innescato con la crisi del colosso ravennate dell’oil & gas che ha sede a Mezzano: la società era poi approdata a un concordato preventivo la cui procedura si era costituita parte civile nel processo con l’avvocato Alessandro Melchionda. Quest’ultimo aveva chiesto un risarcimento in solido per tutti i danni patiti per un totale di 20 milioni di euro.
Nella vicenda giudiziaria Comart, c’è un elemento di novità per il panorama ravennate: si tratta cioè di uno dei primi casi (in precedenza ce n’era stato solo un altro), e comunque del più importante per dimensione societaria, nel quale si è giunti alla contestazione del reato di bancarotta non in presenza di un fallimento ma di un concordato.
Oltre ai risultati delle verifiche delle Fiamme Gialle, all’imputazione si era arrivati anche attraverso una consulenza affidata all’amministratore giudiziario bolognese Stefano Reverberi. Il periodo finito sotto alla lente degli inquirenti, è quello del biennio 2015-2017. Secondo quanto ricostruito oltre che dagli investigatori anche nella memoria depositata dalla procedura concordataria, il capitale sociale di Comart spa risultava interamente posseduto dalla controllante ’Tozzi srl’ i cui amministratori di vertice erano gli stessi. La Tozzi srl inoltre possedeva per intero anche il capitale sociale di ’Tozzi Sud spa’.
Questo in sintesi il contesto all’interno del quale Comart, sebbene già dal 2014 avesse iniziato a riscontrare un drastico calo della produzione - prosegue l’accusa - con relativi campanelli d’allarme, aveva imboccato, per scelta di chi la gestiva, operazioni che si sarebbero poi rivelate pregiudizievoli sia per la società stessa che per i creditori.
In particolare l’ipotesi delineata è che il dissesto si fosse già pianamente manifestato nel corso di approvazione del bilancio del 31 dicembre 2015. E che, nonostante ciò, sia stato ulteriormente aggravato con la prosecuzione - definita indebita - dell’attività oltre tale data: in totale 18 mesi con conseguente accumulo di costi ritenuti dagli inquirenti non necessari. Il riferimento specifico è ad esempio ai lavori di costruzione di una piattaforma: cessare l’attività entro il 2015 avrebbe consentito a Comart di negoziare condizioni di uscita dal contratto più favorevoli dato che a giugno 2016 la costruzione non era ancora iniziata e nemmeno erano stati assegnati i subappalti.
Andrea Colombari