Nel suo complesso "il compendio indiziario raccolto a carico di Daniela Poggiali, si palesa di marcata fragilità". Mancava solo questo tassello per la definitiva conclusione della più importante delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto la 51enne ex infermiera dell’ospedale ’Umberto I’ di Lugo. Nove mesi dopo, eccolo qui.
La Cassazione in particolare ha spiegato come mai il 24 gennaio scorso aveva dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale di Bologna contro l’ultima delle tre assoluzioni incassate in appello dalla 51enne. Al centro di tutto, la morte della 78enne Rosa Calderoni di Russi avvenuta l’8 aprile 2014 a poche ore dal ricovero nel nosocomio lughese. Un decesso che non solo aveva dato la stura a una serie di accertamenti investigativi approdati poi alla condanna definitiva a 4 anni e 7 mesi della Poggiali per una scia di furti in corsia oltre che al suo licenziamento e alla sua radiazione dal collegio degli Infermieri per due foto nelle quali figurava sorridente accanto a una paziente di 102 anni appena deceduta.
Ma in primo grado nel marzo 2016 le verifiche dei carabinieri coordinate dal pm Angela Scorza, per l’imputata avevano significato la condanna all’ergastolo perché riconosciuta colpevole di avere ucciso la paziente 78enne con un’iniezione di potassio. Sentenza ribaltata nel primo appello (con scarcerazione) poi sconfessato dalla prima Cassazione; e poi di nuovo assoluzione nell’appello-bis sconfessata dalla Cassazione-bis. E di nuovo assoluzione nell’appello-ter resa definitiva appunto dall’ultima Cassazione. Un caso unico nel panorama giudiziario italiano: basti pensare che i magistrati hanno impiegato 3.459 giorni per venirne a capo (cioè dal giorno della morte della 78enne al giorno del deposito delle motivazioni della Cassazione-ter).
A Roma era accaduto che il sostituto procuratore generale Valentina Manuali avesse chiesto il rigetto del ricorso bolognese. Lo stesso avevano fatto gli avvocati della Poggiali, Lorenzo Valgimigli e Gaetano Insolera. Mentre l’avvocato dell’Ausl Romagna (Giovanni Scudellari) e i legali dei due figli della defunta (Maria Grazia Russo e Marco Martines), avevano chiesto che fosse accolto. Ma, si sa, nel nostro sistema giudiziario l’ultima parola spetta sempre ai giudici della Suprema Corte. "Il ricorso è inammissibile - si legge nella sentenza del collegio presieduto da Filippo Casa - perché incentrato su motivi privi del prescritto connotato di specificità". Si torna qui "all’iniziale e mai abbandonata ipotesi d’accusa". Ovvero che la Calderoni "non sia morta per cause naturali" ma "per effetto della somministrazione di una dose massiccia o sub-letale di potassio". Gli Ermellini hanno individuato un punto centrale: "Il metodo elaborato dal prof. Tagliaro", consulente della procura ravennate incaricato per calcolare la concentrazione di potassio nella defunta. Ebbene, "la corte d’assise di Ravenna", che aveva deciso per l’ergastolo, "ha ritenuto che a 56 ore dalla morte, un valore superiore a 19" (millimoli per litro) fosse "spiegabile solo quale effetto di una somministrazione esogena di potassio". E questa è "pacificamente l’architrave dell’intero processo" con "un costrutto accusatorio imperniato per il resto su circostanze" di "conferma, supporto o compatibilità". Del resto "elementi come frequenza statistica dei decessi nei turni dell’imputata" e "sue anomalie comportamentali, autorizzano al più meri sospetti in un contesto segnato dall’assenza di un movente". In ogni modo, "gli approfondimenti istruttori eseguiti nell’ultimo giudizio, hanno consentito di acquisire informazioni che minano alla radice l’edificio accusatorio". Il riferimento è per la "parziale rivisitazione nel 2020 da parte del prof. Tagliaro delle conclusioni" del suo primo elaborato del 2011.
Nel dettaglio con le nuove formule, si ottiene una forbice di valori naturali di potassio molto più ampia tanto che anche quel 19 vi rientra: "Un macigno inanzi a qualsiasi tentativo di individuare nella somministrazione di potassio la causa di morte della 78enne". Più in generale nel rispetto della "regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio" una condanna non può "essere affidata a una empirica indagine statistica, alla singolarità dei comportamenti o alle dicerie dell’ambiente ospedaliero".
Andrea Colombari