La Suprema Corte martedì pomeriggio ha rigettato il suo ricorso e lo ha condannato al pagamento delle spese processuali. Fine corsa dunque per il cuoco 50enne faentino accusato di avere tentato di ammazzare la consorte con caffè avvelenato da alcuni farmaci e di avere anche maltrattato e abusato della donna: per lui la condanna a 16 anni rimediata in appello, è ora definitiva. Confermate le statuizioni civili (50 mila euro) riconosciute alla donna, parte civile con l’avvocato Laerte Cenni. E alla figlia (15 mila euro) tutelata dall’avvocato Carlo Piccoli.
La vicenda aveva suscitato molto clamore: sia per quanto era emerso grazie alle indagini dei carabinieri, che per le modalità con cui l’uomo aveva cercato di avvelenare la moglie. A incastrarlo, erano state le intercettazioni video disposte subito dopo le confidenze della donna ai militari. A quel punto era stata messa sotto protezione in quello che, secondo la procura, se non si fosse intervenuti subito, avrebbe potuto essere il delitto perfetto in quanto compiuto usando, ma in sovradosaggio, gli stessi farmaci che la designata vittima già utilizzava. In appello la procura generale aveva sostenuto, invano, che solo una perizia avrebbe potuto stabilire se il dosaggio di quei farmaci nel caffè avrebbe potuto avere esito letale: e che quindi l’accusa avrebbe dovuto essere derubricata in lesioni aggravate.
Secondo quanto ricostruito dall’Arma (nucleo Investigativo e locale Compagnia), la coppia si era sposata una decina di anni prima rispetto alle tensioni che nel 2016 aveva spinto il cuoco a chiedere la separazione. L’anno dopo lei aveva scoperto che lui conduceva una doppia vita ormai da anni frequentando un’altra donna. Nel 2019 lei aveva scritto alla possibile amante di lui per riferirle in buona sostanza che l’uomo continuava lo stesso a tenere i piedi in due scarpe. Ecco la molla, secondo l’accusa, del piano omicidiario, messo in atto dal settembre 2021 quando l’uomo aveva cercato di avvelenare lentamente la moglie colpevole ai suoi occhi di avere intralciando i suoi piani.
Allo scopo, si era fatto improvvisamente premuroso: tanto che ogni giorno, per qualche settimana, si preoccupava di prepararle una tazzina di caffè: corretto tuttavia con un farmaco anticoagulante che la donna già assumeva sotto stretta prescrizione medica: l’Eliquis, non di libera vendita e potenzialmente in grado di provocare emorragie cerebrali se in sovra-dosaggio.
Dopo avere polverizzato le compresse, mescolava la sostanza allo zucchero; quindi copriva la tazzina con la cialda. A un certo punto aveva iniziato pure a usare un vasodilatatore, il Carvasin: con l’obiettivo, per gli inquirenti, di rendere non arginabili le eventuali emorragie. E nella successiva autopsia, non sarebbe rimasta traccia alcuna. L’imputato doveva rispondere anche di maltrattamenti caratterizzati da aggressioni, fisiche e psicologiche, e da minacce. E di varie violenze sessuali.
Dal marzo 2020, in pieno lockdown per via della pandemia da covid19, si era trasferito quasi stabilmente dalla ormai ex moglie: ma proprio la improvvisa premura dell’uomo, oltre all’insistenza nel volerle fare bere il caffè del risveglio, avevano finito con insospettire la donna. Il sapore non proprio da ’miscela riserva’ del macinato, aveva dato ulteriore spinta ai dubbi. Inoltre da qualche tempo si erano affacciati strani malesseri e formicolii alle gambe. Infine un giorno, rimuovendola la cialda, lei aveva notato tra lo zucchero la presenza di pastiglie gialle tritate. Ecco superato lo spartiacque.
Per la difesa – avvocato Marco Malvolti – il cuoco invece non avrebbe proprio avuto alcun motivo per uccidere la moglie dato che la donna lo aveva riperso in casa. E che la relazione stava tornando sui giusti binari. Ma ora la Cassazione ha sgombrato ogni dubbio su letture alternative del caso.
Andrea Colombari