REDAZIONE RAVENNA

Armi bloccate al porto. Ma da Milano e Bologna passarono quattro ordini

La vendita di pezzi di cannone (150mila euro) fermata a Ravenna era senza autorizzazione di due Ministeri. Ma nel 2024 l’esportatore ha superato tre dogane.

La prima ispezione doganale sul carico sospetto scattò il 6 dicembre 2024. In seguito è emerso che la società intermediaria non era in possesso dell’autorizzazione per l’esportazione di materiale di armamento, né era iscritta al Registro Nazionale delle Imprese tenuto presso il ministero della Difesa (. repertorio

La prima ispezione doganale sul carico sospetto scattò il 6 dicembre 2024. In seguito è emerso che la società intermediaria non era in possesso dell’autorizzazione per l’esportazione di materiale di armamento, né era iscritta al Registro Nazionale delle Imprese tenuto presso il ministero della Difesa (. repertorio

Aveva già aggirato i controlli di altre tre dogane italiane nel 2024, esportando componenti impiegabili per applicazioni aerospaziali e militari. Prima che l’Agenzia delle Dogane bloccasse l’ultimo carico – 800 pezzi per costruire cannoni, un valore stimato di 150.000 euro – al porto di Ravenna lo scorso 4 febbraio, l’imprenditore 57enne della provincia di Lecco, ora indagato per esportazione non autorizzata di materiale d’armamento, aveva già spedito materiali analoghi in Israele. Lo aveva fatto il 25 giugno e il 10 settembre passando dalla dogana di Bologna, e poi ancora il 6 novembre da quelle di Milano 1 e Milano 2, senza destare sospetti.

Anche in quei casi, come confermano le indagini dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli nell’ambito del fasciolo aperto a Ravenna, i carichi erano ufficialmente presentati come “forgiati”, “fusioni” o “semilavorati” prodotti da due società di Varese. Ma in realtà si trattava – secondo gli accertamenti tecnici effettuati – di materiali d’armamento, destinati alla costruzione di sistemi bellici. Mentre il carico sequestrato a Ravenna era diretto alla Israel Military Industries Ltd. (IMI) – componenti grezzi impiegabili "per la costruzione di cannoni per veicoli terrestri da combattimento" –, le precedenti spedizioni erano state effettuate per conto della Ashot Ashkelon Industries, società attiva nel settore aerospaziale e della difesa, ma controllata dalla stessa IMI, il principale produttore israeliano di armi e munizioni. Quest’ultima, fondata nel 1933, ha sede legale in Israele (Ramat Hasharon), con sedi negli Stati Uniti, Thailandia e Italia, e produce razzi e missili guidati, armi aeree pesanti, carri armati, munizioni di artiglieria e fanteria, mortai e munizioni. La Ashot Ashkelon Industries, il precedente destinatario, invece, progetta e commercia ingranaggi e trasmissioni per i settori aerospaziale, di difesa e automobilistico.

La ricostruzione delle autorità è chiara: l’imprenditore, a paroprio dire inconsapevolmente, avrebbe agito come intermediario nell’esportazione di componenti per armamenti, pur non essendo autorizzato a farlo. Non risulta infatti iscritto al Registro nazionale delle imprese tenuto dal Ministero della Difesa e non dispone delle licenze previste dalla normativa italiana per la movimentazione di materiali bellici. Il Ministero della Difesa ha confermato che i componenti sequestrati, benché descritti come “grezzi”, potevano facilmente diventare – con semplici lavorazioni meccaniche – parti essenziali di cannoni. Anche il Ministero degli Affari Esteri ha chiarito che non vi era alcuna autorizzazione per l’esportazione di armi verso Israele.

Nonostante un tentativo da parte del responsabile commerciale della società di sminuire la vicenda, sostenendo che "non vi era nessun contatto con IMI" e proponendo una custodia alternativa dei pezzi per ridurre i costi, il sequestro è stato eseguito e poi convalidato dal Gip di Ravenna Janos Barlotti, quindi confermato dal Tribunale del Riesame al quale l’esportatore si era rivolto, vedendosi negare il dissequestro. I magistrati hanno sottolineato la piena consapevolezza dell’indagato, il quale – dopo ben quattro spedizioni nel 2024 – ben sapeva cosa e per chi esportava.

I pezzi sono ora custoditi sotto vigilanza giudiziaria al Terminal container (Tcr) del porto di Ravenna. Secondo gli inquirenti, il legame tra le due aziende israeliane coinvolte – IMI e Ashot Ashkelon – evidenzia una filiera chiara e continuativa nella quale la società lombarda faceva da tramite, eludendo i controlli previsti per le esportazioni militari. Le indagini continuano e non si esclude che emergano ulteriori spedizioni sospette. Ma un dato è ormai certo: quello bloccato a Ravenna non è stato un caso isolato.

Lorenzo Priviato