La sentenza d’appello è stata annullata nella quasi totalità della sua spina dorsale. E cioè per i capi d’imputazione relativi al tentato omicidio e alle aggravanti dell’uso della pistola e del metodo mafioso. E’ passata in giudicato la sola tentata estorsione.
Un autentico colpo di scena quello uscito nel tardo pomeriggio di venerdì dalla Cassazione in merito a ciò che almeno fino al 21 giugno del 2019 (data dell’appello) era stato inquadrato come agguato in piena regola organizzato a Faenza ai danni dell’imprenditore manfredo Salvatore Arena (parte civile con l’avvocato Nicola Montefiori).
Era la mattina dell’8 luglio 2009 quando in via Caldesi, Arena, all’epoca 45enne, era uscito di casa per gettare via la spazzatura prima di andare al lavoro quando fu affrontato da un sicario a volto coperto il quale gli sparò ben cinque colpi di pistola calibro 7.65: due andarono a segno gambizzandolo prima che riuscisse a fare le scale per rifugiarsi in casa. Ma qualcosa aveva disorientato il killer che aveva di fatto mancato il suo obiettivo.
Per l’accaduto, i giudici di appello avevano confermato la condanna a 20 anni di carcere a testa per tre siciliani: Salvatore Randone, imprenditore 67enne residente a Dozza Imolese, Antonino Rivilli detto Grilletto d’oro, 51 anni, ritenuto l’esecutore materiale, e Antonio Nicotra, 71 anni, catanese di Misterbianco che tirava i fili dalla Sicilia. Tutti sempre rimasti a piede libero. Rischiavano insomma di finire dritti dritti in carcere qualora gli Ermellini avessero confermato l’intero dispositivo. E invece dei 14 motivi di ricorsi presentati dagli avvocati difensori - Carlo Benini, Renato Conte, Carmelo Peluso e Francesco Antille -, quattro sono stati accolti (la procura generale e la parte civile avevano chiesto il rigetto di tutto). Si dovrà perciò celebrare un nuovo processo in appello. E nell’attesa che vengano depositate le motivazioni, l’avvocato Benini, che sin dall’inizio aveva seguito il caso, ha ora precisato di avere sempre sostenuto che non vi fosse nessuna prova del tentato omicidio.
Secondo invece quanto ricostruito dalla Dda di Bologna - sequenza che ora dovrà passare a ulteriore vaglio -, tutto si era innescato perché Arena, imprenditore nel settore della carpenteria, aveva ricevuto lavori in appalto dalla ditta Marocchi srl di Imola a parziale scapito della ditta del Randone, la Mediterranea Impianti srl. In realtà Arena, titolare di una piccola ditta, non avrebbe intaccato in maniera consistente gli affari della società del Randone: ma quello che appariva inaccettabile – prosegue l’accusa – era l’affronto subito.
Dopo avere convocato il fratello di Arena in un bar di Piano Tavola, località vicina a Misterbianco, i tre imputati senza troppi giri di parole, gli avevano consigliato di avvisare il familiare circa l’intollerabilità dell’affronto. Se non l’avesse fermato lui, "gli avrebbero messo un freno" loro. Tutto captato grazie a un piccolo registratore che l’uomo si era portato appresso.
Pochi giorni dopo aveva preso un aereo per precipitarsi fino dal fratello a Faenza e raccontargli tutto. Ma Arena, non ritenendo giusto sottostare alla minaccia, non aveva lasciato l’appalto continuando a lavorare fino al giorno dell’agguato. Nel novembre del 2015 a Ravenna era stata
pronunciata la sentenza di primo grado. L’appello aveva poi ribadito ogni cosa; in quell’occasione peraltro uno degli imputati non era presente perché arrestato poco tempo prima nell’ambito di una vasta operazione contro la cosca dei ‘Tuppi’, storico clan che, per l’accusa, dopo anni di esilio voleva riprendere il controllo della zona di Misterbianco. Un’altra storia ancora da finire di scrivere, così come quella di Faenza.
Andrea Colombari