
Pesaro e Urbino, 11 settembre 2020 - Centosessant’anni fa, tra l’11 e il 12 settembre 1860, si consumava a Pesaro – e poi nell’Italia centrale – la fine del secolare dominio della Santa Sede. L’antefatto è la seconda Guerra d’indipendenza, dopo la quale la Lombardia passa al regno di Sardegna; ma nel marzo 1860 anche le terre che oggi sono Emilia Romagna e Toscana votano l’annessione al regno di Vittorio Emanuele e nel maggio del 1860, inoltre, Garibaldi sbarca a Marsala.
In questo quadro di totale movimento, lo Stato pontificio cerca di premunirsi e il generale Lamoricière è incaricato di riorganizzare l’Armata pontificia, che in pochi mesi passa da circa 16.000 a 24.000 uomini, perlopiù volontari francesi, belgi, irlandesi, svizzeri, bavaresi, austriaci e italiani. Truppe che saranno poi dislocate tra Perugia, Spoleto, Macerata e Ancona: ma la diplomazia pontificia, che pure ha un passato glorioso, si fa ingannare dall’ambiguità di Napoleone III, che mantiene truppe nel Lazio e che a parole si fa garante contro qualsiasi minaccia.
L’8 settembre 1860, però, gruppi di fuorusciti guidati da ufficiali piemontesi muovono da Mondaino su Urbino, entrano di sorpresa in città e la prendono dopo uno scontro verso il portico di san Francesco; scendono poi su Fossombrone e la occupano; e intanto Pergola è insorta per conto suo. Oggi sappiamo che quei movimenti sono il pretesto per l’intervento, ma per giorni la Santa Sede continua a escludere un intervento dell’Armata sarda. Così Lamoricière ordina che la brigata De Courten, stanziata in Ancona, riporti l’ordine nell’Urbinate e il 9 settembre la brigata muove per Jesi, Ostra e San Lorenzo in Capo su Mondavio e Pergola.
A Pesaro c’è un presidio di 1.200 uomini comandato dal colonnello Zappi, che spedisce una colonna su Fossombrone, dove sorprende gli insorti e li sloggia dalla città. Ma il cardinale Luigi Ciacchi, ben informato, la mattina del 10 settembre parte in fretta da Pesaro per Roma. La sera del 10 settembre, dunque, l’ordine sembra ristabilito. Ma a quel punto i Piemontesi attraversano la frontiera. L’Armata sarda schiera sul versante adriatico il IV corpo d’armata su tre divisioni: la 4ª, che da Cattolica investe Pesaro; la 7ª, che per la valle dell’Arzilla muove su Fano, la 13ª, che da Saludecio dirige su Urbino. La città di Pesaro è investita nella tarda mattina dell’11 settembre, quando lancieri e bersaglieri si avvicinano alle mura. L’invito a capitolare è respinto.
Un battaglione bersaglieri si disloca al porto per bloccarlo, unità maggiori si presentano lungo il Foglia e, dopo qualche cannonata, le mura sono scavalcate a porta Cappuccina, sul Trebbio: la guarnigione pontificia, che non può difendere il perimetro, si chiude nella rocca, attorno alla quale si accende una nutrita fucileria. Tenendosi a distanza, l’artiglieria piemontese sale sull’Ardizio e da lì prende a cannoneggiare rocca Costanza, dotata di pochi cannoni guardacoste: i colpi a segno scheggiano gli antichi mattoni, quelli lunghi danneggiano case e l’episcopio.
In famiglia una trisavola che viveva a borgo Badò e che rimase impressionata dagli italiani "fitti come le mosche", ricordava che gridavano "Niente paura, donne, siamo piemontesi. Chiudete porte e finestre". Perché oggi sappiamo che erano "i nostri", ma allora il papa era da sempre il re e questi venivano a spodestarlo. Qualche allarme nella notte, e prima dell’alba il cannone riprende. Nella mattina del 12 la rocca si arrende e Cialdini ne tratta con arroganza il comandante. I Piemontesi hanno sette morti, i cui nomi sono ricordati in una lapide all’entrata della prefettura; il presidio pontificio una ventina, che non sono ricordati da nessuna parte.