Gabriella Guidi esordisce in libreria con un romanzo forte e passionale, una storia vera che sembra già segnata dal principio, facendoci conoscere un aspetto della cultura albanese. C’è la determinazione, il sogno e il riscatto. “Una vita maledetta“ è fresco di stampa per Transeuropa edizioni ha già ottenuto diversi importanti riconoscimenti.
Grande lettrice, nuova come autrice: Guidi (nella foto) è originaria di Casinina (Sassocorvaro-Auditore), lavora a Urbino nella pubblica amministrazione e ama scrivere a Fano, in barca.
Può essere davvero maledetta la vita?
"Dal mio punto di vista è un dono prezioso e un’opportunità unica, ma penso che se si vive in condizioni di ingiustizia, oppressione, violenza o disperazione, si può perdere il senso e il valore della propria esistenza. Credo che la vita possa essere davvero maledetta quando si perde il controllo della propria esistenza, quando si viene privati della propria dignità e dei propri diritti, quando si vive nel terrore e nella solitudine. Vivere una vita maledetta è, in certi contesti, ancora molto rilevante e ci invita a riflettere sul valore della vita stessa, sulle scelte che facciamo, sulle responsabilità che abbiamo verso noi e gli altri".
Alida è la protagonista, come l’ha conosciuta?
"Un’amica albanese mi ha parlato di lei. Durante i primi incontri, ho notato che era piuttosto diffidente ed era evidente che avesse paura di essere riconosciuta. Nonostante la sua iniziale riluttanza, ho cercato di costruire un rapporto di fiducia con lei. Ho rispettato il suo spazio e i suoi tempi".
Una storia che parte da un contesto tremendo, poco conosciuto, ma che in realtà esiste.
"Mi sono recata più volte in Albania per vacanza e per il lavoro di mio marito e, in una di queste occasioni, ho sentito parlare del Kanun, un insieme di norme che regolano la vita sociale, familiare e giuridica soprattutto degli abitanti dell’Albania del nord. Il codice è basato sull’onore, la vendetta e la gerarchia. Il Kanun discrimina le donne che sono considerate inferiori agli uomini e sottomesse ai loro voleri. In queste norme sono comprese le Burrneshe, una dimostrazione di una realtà dura e difficile, dove le donne devono rinunciare alla loro identità per sopravvivere".
Quando ha capito che era una storia da raccontare?
"La prima volta che ho incontrato una Burrnesh. Era una donna che si era fatta uomo per sfuggire alla società patriarcale dei Balcani, dove le donne erano prive di diritti e libertà. Mi ha impressionato il suo coraggio, la sua determinazione, la sua solitudine. Mi ha confidato la sua vita, le sue scelte e le sue rinunce. Mi ha espresso il desiderio di ritrovare la sua identità, di essere se stessa, di amare. Mi ha fatto comprendere che la sua storia era una storia di resistenza, di ribellione, di emancipazione. Sappiamo tanto sulla vita delle donne arabe, kazake, afgane e iraniane, ma quasi nessuno conosce questa usanza alle porte di casa nostra".
Francesco Pierucci